Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

martedì 9 dicembre 2014

Il grande Kublai Khan sconfitto dai … Kamikaze!




Kamikaze: questa parola l’abbiamo sentita associata agli attacchi suicidi dei piloti giapponesi contro le navi americane durante la seconda guerra mondiale: oggi si continua a parlarne riferendosi agli attentati terroristici nel Medio Oriente. Non tutti sanno il significato di questa parola e pochi ne sanno l’origine, che risale ad un antico conflitto tra mongoli e giapponesi svoltosi nel 1200.
E’ dell’anno scorso la notizia che un’équipe di archeologi napoletani ha ritrovato, nei fondali al largo della piccola isola di Takashima, parte della flotta dell’imperatore Kublai Khan, nipote del condottiero mongolo Gengis Khan. L’area si trova a sud del Giappone e più precisamente nell’isola del Kyushu, nei pressi della baia di Hakata, che per ben due volte fu scelta dai Mongoli come area idonea per l’invasione del paese nipponico, in quanto sede del “Korokan” (il palazzo Imperiale).

La spedizione Italo – nipponica, dopo due anni di incessanti ricerche, condotte dall’archeologo Daniele Petrella, direttore dell’Iriae (international research institute of archaeology and etnology) e dal prof. Hayashida Kenzo presidente e fondatore dell’Ariua (asian research institute of underwater archaeology), con la partecipazione del prof. Sebastiano Tusa della soprintendenza del mare della regione Sicilia, è riuscita ad individuare ed a riportare alla luce parte della flotta salpata dall’antica Happo (Corea) e spazzata via da un tifone il 15 agosto del 1281. Il violento impatto frantumò gli scafi delle navi che affondarono l’una dopo l’altra, ricoprendo il fondale dell’isola. Dopo più di 600 anni, i tesori custoditi sulle imbarcazioni sono tornati alla luce. Anfore, armi, elmi, ed armature ancora rinchiuse all’interno di solidi bauli hanno raccontato agli archeologi la tragedia di quel giorno. Il ritrovamento è di quelli veramente importanti che vanno a conferma delle cronache e delle leggende antiche. Un po’ come il ritrovamento della città di Troia, considerata un mito non storico fino a quando Schlieman non la riportò alla luce ed alla storia. Anche in questo caso il contributo degli italiani alla conoscenza dell’Estremo Oriente è stato rilevante… ma vediamo i fatti.

Kublai Khan (1215-1294), gran khan dei mongoli, primo imperatore della dinastia mongola Yuan della Cina. Nipote di Gengis Khan, portò a termine la conquista della Cina iniziata dal nonno. Dal 1252 al 1259 aiutò il fratello Mongke Khan a conquistare la Cina meridionale, penetrando fino in Tibet e nel Tonchino. Alla morte di Mongke (1259), Kublai gli succedette nella carica di khan. Nel 1264 fondò una nuova capitale nel luogo dell'attuale Pechino, chiamandola Khanbalik (o Cambaluc, cioè “città del Khan”, come riporta Marco Polo che visse ben 17 anni alla sua corte). La fama della potenza di Kublai Khan si diffuse in tutta l'Asia e in Europa: la sua corte, che assimilò molti caratteri della civiltà cinese, esercitò un grande fascino e attirò numerosi mercanti e viaggiatori da tutto il mondo. Nell'impero fiorirono il commercio, la letteratura e le arti; Kublai elevò il buddhismo a religione di stato, permettendo tuttavia la professione di altre fedi religiose.

Ma la smania espansionistica del khan non aveva pace: Kublai con alcune campagne militari tra il 1276 e il 1279 sconfisse la dinastia Song che regnava nella Cina meridionale e ne acquisì i territori. Dopo avere conquistato lo Yunnan e il Goryeo (Corea), sotto la pressione dei suoi consiglieri mongoli, tentò la conquista di  Birmania, Vietnam, Giava e Giappone, ma non fu altrettanto fortunato.
Il prodromo fu l'invio in Giappone di un ambasciatore ufficiale con la richiesta di sottomissione: il messaggio fu respinto e la prima invasione ebbe quindi luogo nel 1274, quando una flotta di un migliaio di navi e una forza di 45.000 uomini furono inviate verso il nord verso l'isola di Kyushu allo scopo di tentarne la conquista. Ma un violento tifone decimò la spedizione, costringendola a tornare indietro.

Nel 1279, Kublai Khan decise di mandare nuovamente un inviato per contrattare la resa giapponese. In quel momento Hojo Tokimune, reggente del settimo shogun, non solamente rifiutò la resa, ma fece decapitare i 5 emissari mongoli a Kamakura. Furioso, Kublai nel 1281 attaccò Fukuoka, con un esercito rinforzato (140.000 soldati e 4.000 navi). I combattenti giapponesi erano 40.000, troppo pochi per fronteggiarli, ma nonostante questo, le forze mongole trovarono una resistenza impenetrabile, non riuscendo a conquistare una posizione sicura. I giapponesi infatti, erano preparati per contrastare l’invasione e avevano costruito un muro alto alcuni metri sull'isola dov'era previsto che i mongoli toccassero terra, onde impedire ai loro cavalli di sbarcare con facilità. Dopo 50 giorni di lotte e scontri, il Giappone ancora resisteva ai loro invasori. Eppure la superiorità dei Mongoli non tardò a farsi sentire neanche questa volta: i samurai giapponesi, infatti, combattevano con la concezione di uno-contro-uno, mentre i Mongoli erano abituati ad utilizzare tecniche più sofisticate, i loro archi potevano lanciare lontano il doppio, e in più facevano uso dell'esplosivo, mai visto prima di allora dai giapponesi. 


Questa volta gli invasori erano destinati a risolvere il conflitto in loro favore. Di fronte a tutte queste difficoltà e la fine oramai prossima, lo shogunato Hojo aveva persuaso l'imperatore a chiedere a ogni santuario del paese di pregare  affinché un intervento divino li aiutasse ad uscire vincitori da quella situazione ormai disperata. All'improvviso, mentre i Mongoli stavano preparando un nuovo campo base a Takashima, un altro ciclone si alzò del tutto inavvertitamente e spazzò via le navi nemiche, affondandone molte e uccidendo più di 100,000 mongoli.


Secondo quanto vuole la leggenda, quel tifone si scatenò esattamente nello stesso momento in cui l'imperatore invocava in preghiera la dea del sole Amaterasu, supplicandola di salvare il suo popolo. Il tifone fu visto, quindi, come un intervento divino e perciò chiamato "kamikaze" che in giapponese significa, appunto, "vento divino". (Kami che significa "Dio" e kaze che significa "vento, tempesta".)

P.S.
Per la cronaca, anche la parola “tifone” che indica le tempeste tropicali che hanno luogo nel Pacifico settentrionale e nel mare della Cina (dette “uragani” nell’Atlantico e “cicloni” nell’Oceano Indiano) deriva dal cinese 太風, “tai feng” che diventò per assonanza “typhoon” in inglese, da cui la parola “tifone”, che significa appunto “fortissimo vento”.
La parola “kamikaze”, nella scrittura giapponese mutuata dal cinese, è 神風 sheng feng” che significa appunto, al di là della diversa pronuncia, “vento divino”.

 Fonti:


giovedì 27 novembre 2014

Cang Jie inventa la scrittura, i cellulari la distruggono!



Il cinese è la più antica lingua viva: non sappiamo esattamente quanto sia antica, tuttavia reperti archeologici che risalgono al 1500 a.C. testimoniano che la lingua cinese scritta è vecchia di oltre 3500 anni. Le prime iscrizioni furono trovate come incisioni su ossa di animali o carapaci di tartarughe e risalgono al periodo della Dinastia Shang (1766 -1123 a.C.). Sono state trovate iscrizioni per più di 4500 caratteri (di cui ne sono stati identificati solo 900): questa scrittura e stata denominata 甲骨文(jiǎ gú wén) cioè  "scrittura delle ossa e dei carapaci".
Secondo una delle leggende più accreditate l’invenzione della scrittura cinese va attribuita a Cāng Jíe, un ministro dell'imperatore Huáng Dì  (il mitico Imperatore Giallo). Cang Jie era di aspetto molto singolare: aveva infatti quattro occhi (ed alcuni dicono che fossero sei). L’imperatore Giallo gli aveva affidato l’amministrazione di questioni molto importanti, ad esempio la contabilità del bestiame e del cibo, il calcolo dei tempi per le offerte alle divinità, il censimento della popolazione.
All’inizio, Cang Jie utilizzò il metodo tradizionalmente usato, chiamato “registrazione con i nodi” introdotto da Sheng Nong, uno dei leggendari Tre Augusti: su alcune corde venivano fatti dei nodi per registrare ogni sorta di cambiamento. Si usavano corde di colore diverso per indicare elementi diversi, mentre il numero dei nodi indicava le quantità del bestiame, delle vettovaglie, e d’altro ancora. Ma con il passare del tempo, cambiamenti da registrare divennero sempre più complicati e i nodi sulle corde evidentemente non erano più sufficienti, spesso si facevano errori.



Come fare, allora? Cang Jie, persona di grande intelligenza, pensò di incidere dei segni sul bambù o sul legno con un coltello, sostituendo così il metodo delle cordicelle annodate. Tuttavia, occorreva molto tempo per incidere con un coltello la sagoma del bestiame o delle vettovaglie sul bambù o sul legno. Cang Jie dovette spremersi le meningi per trovare un metodo di registrazione più pratico.
Un giorno andò a cacciare insieme ad alcuni uomini della sua tribù e vide per terra le impronte lasciate da ogni genere di animali. L’impronta di ciascun animale è diversa dalle altre e un cacciatore esperto riesce subito a distinguere qual è l’impronta di un cervo, quale quella di una capra, quale quella di una tigre. Ad un tratto, Cang Jie ebbe un’illuminazione: perché non rappresentare gli animali usando simboli semplici come le loro impronte? Secondo lo stesso principio, anche tutto il resto poteva essere rappresentato con dei semplici segni! Contentissimo, si mise subito a studiare quali simboli potessero raffigurare ogni forma del reale. Osservò con attenzione gli oggetti intorno a lui, esaminò la forma del sole, della luna, delle stelle, la forma descritta da fiumi e montagne salendo e scendendo all’orizzonte;  inoltre, scrutò attentamente gli arabeschi sul carapace delle tartarughe, le impronte lasciate dagli uccelli e altri disegni della natura. Trovò un simbolo adatto per ogni animale e per ogni oggetto attorno a sé. Fu così che l’umanità diede inizio  alla civiltà, usando la scrittura per illuminare la realtà. Mentre i nuovi oggetti diventavano sempre più numerosi e la realtà si faceva sempre più variegata e complessa, Cang Jie provò a combinare i simboli già creati per esprimere concetti più articolati. Fu così che compose le prime forme della scrittura cinese. Quando Cang Jie tentò di applicare i caratteri che aveva creato al proprio lavoro di registrazione, il risultato fu straordinario: tutto era amministrato in modo più veloce e più preciso. Quando Cang Jie spiegò nel dettaglio all’Imperatore Giallo la sua creazione, questi fu molto soddisfatto ed ebbe parole di grande elogio per lui. Cang Jie fece dono all’Imperatore della scrittura che aveva creato e il sovrano lo incaricò di trasmettere a tutti i suoi caratteri e il metodo che egli utilizzava. Poco a poco, tutti iniziarono ad utilizzare la scrittura.
Questa la leggenda: in realtà per molto tempo non ci sono state regole riguardo alla scrittura dei caratteri, che venivano scritti in molte forme diverse: durante la Dinastia Zhou (1066-256 a.C.) ogni regno aveva la libertà di scrivere alla propria maniera.
Nei secoli la scrittura cinese ha subito molte trasformazioni: ne ricordiamo alcune.
Lo Stile Sigillare (zhuànshū 篆書) è il più antico degli stili: esso trova il suo apogeo nella dinastia Qin (221-206 a.C.). Deriva da un adattamento calligrafico dei caratteri arcaici, volto a dare loro una forma adatta ad essere incisa sul bronzo o sulla pietra.







Fu l'imperatore Qin Shi Huang che standardizzò  pesi, misure e scrittura. Venne sviluppato un nuovo modo di scrivere detto Stile dei Funzionari (隸書 lì shū) che consisteva nel combinare delle forme base, i cosiddetti radicali, all'interno di un immaginario contenitore quadrato di dimensioni sempre uguali. Per scrivere caratteri complessi, contenenti cioè molti radicali, era necessario ridurre in scala le rappresentazioni dei radicali stessi in modo da farli stare sempre nella stessa forma. (es:  deriva dalla compressione di 立﹐口 e nello stesso spazio).
Alla evoluzione  della lingua scritta ha contribuito moltissimo l'invenzione della carta, verso il 200 d.C. ed il successivo uso di pennello ed inchiostro per scrivere e dipingere. Sotto la dinastia degli Han, nel corso del III secolo d.C. appare lo stile regolare (楷書 kǎishū ) considerato come un miglioramento ed una razionalizzazione dello stile dei funzionari. È la scrittura standardizzata (正楷 zhèngkǎi), che raggiunge il suo apogeo sotto i Táng nel VII-VIII secolo, in cui i calligrafi fissano definitivamente la struttura e la tecnica del tratto. Il bisogno di una scrittura semplice, il più leggibile possibile, molto regolare, rispondeva alle necessità di accentramento del potere. Questa scrittura, vettore dell'amministrazione, ha dunque partecipato, attraverso la sua stabilità, all'egemonia del potere imperiale, a tal punto che fino alle semplificazioni del 1958 e del 1964 adottate nella Repubblica Popolare Cinese, non era mai stata ritoccata né modificata.
Sempre in quel periodo viene introdotto anche lo stile corrente (行書 xíngshū). È una "deformazione" per semplificazione del tratto del regolare dove i caratteri “corrono” e quindi la scrittura è più rapida. È per queste ragioni che è il più utilizzato ai giorni nostri per la scrittura manoscritta della vita quotidiana. Tuttavia non è ignorato dalla calligrafia, tutt'altro, e neanche è considerato come una forma imbastardita del regolare: in calligrafia, infatti, possiede propri vincoli distinti. Tracciato dalla punta del pennello o con uno stilo, esso risulta molto leggibile, rapido da scrivere e facilmente decifrabile. Non necessita obbligatoriamente di un apprendimento separato dal regolare perché è una grafia quasi corsiva, le riduzioni subite dai caratteri risultano logiche: sono stilizzazioni delle unità fondamentali che nascono naturalmente dal pennello o dallo stilo quando questo non lascia più il foglio per un nuovo tratto, le quali si riuniscono dunque più spesso che nel regolare. Allo stesso modo, gli inizi dei tratti sono più semplici e diretti (la punta del pennello non pratica i ritorni all'indietro caratteristici del regolare).
Ultimo degli stili calligrafici, denominato anche "corsivo" o "scrittura folle", lo stile d'erba (草書 cǎoshū) è senza dubbio il più sorprendente. Il suo nome può essere interpretato in vari modi: sia che è una scrittura agitata come l'erba (è uno dei sensi di cǎo) nel vento, sia che è destinata ad usi effimeri, come la brutta copia (un altro senso possibile di ), alla maniera della paglia. Lungi dall'essere una forma stenografica nata dalla precedente, è un tipo di scrittura interamente a sé stante. Il tratto dei caratteri – i quali appaiono fortemente deformati, sembrando formati senza vincoli apparenti, sono spesso legati tra loro e si allontanano frequentemente dal quadrato virtuale – si basa su forme tachigrafiche prese in prestito dagli stili precedenti. Esistono, inoltre, numerosissime varianti, secondo le epoche e i calligrafi. La lettura e la scrittura di questo stile sono quindi riservate ai calligrafi e agli specialisti eruditi.
Lo stile d'erba si caratterizza principalmente per un tratto molto codificato dei caratteri, che sono abbreviati e ridotti alla loro forma fondamentale e non sono più riconoscibili all'occhio profano. Le riduzioni procedono sia da una semplificazione naturale del tratto, il pennello lasciando solo raramente il foglio, sia da grafie stenografiche convenzionali a volte molto antiche, le quali hanno potuto dare origine ad alcuni dei caratteri semplificati della Repubblica popolare cinese. Il calligrafo che lavora nello stile d'erba, tuttavia, non traccia per forza i caratteri più velocemente che negli altri stili: la rapidità è suggerita e descritta ma non ricercata di per sé. Questo stile, in effetti, è ora utilizzato molto raramente per le brutte copie: richiede una tale conoscenza della scrittura cinese e della sua storia, e una tale maestria tecnica che è riservato principalmente all'arte. Di fatto, benché corsivo, lo stile d'erba si traccia più spesso con grande attenzione. Al di là del suo ruolo semantico, il tratto del carattere cinese appare come un elemento plastico, parte di una nuova arte visiva: non si può più parlare di scrittura, allora, ma di calligrafia 書法 (shū fǎ ). Con lo stile delle erbe, il meno leggibile in quanto più veloce, la calligrafia diviene arte pura ed assume definitivamente un carattere estetico.
Nel secolo scorso queste rappresentazioni subirono un ulteriore processo di stilizzazione e semplificazione che ha portato agli attuali sinogrammi. Sebbene la semplificazione dei caratteri sia associata alla Repubblica popolare cinese, il processo di semplificazione della scrittura ha inizio prima del 1949. Negli ’30 e ‘40 la discussione sulla semplificazione dei caratteri ebbe luogo col governo del Kuomintang  (il partito popolare nazionale) e un gran numero di intellettuali e scrittori cinesi sostennero che la semplificazione avrebbe aiutato l'alfabetizzazione. La Repubblica popolare cinese diffuse ufficialmente la semplificazione dei caratteri in due fasi, una nel 1956 e l'altra nel 1964.
Il processo di apprendimento della scrittura cinese è lungo e occupa tutto il ciclo che da noi corrisponde alle elementari e medie (ben otto anni!) e è basato sulla memorizzazione meccanica ottenuta scrivendo e riscrivendo i caratteri. Fino al XX secolo, la scrittura dei caratteri cinesi richiedeva un pennello e dell'inchiostro. Nei primi anni del XX secolo, quando la penna è diventata il nuovo strumento di scrittura in Cina e in Giappone, i critici hanno iniziato a lamentarsi dato che, secondo loro, senza il pennello, l'espressività nella scrittura sarebbe andata persa con il passare del tempo.
In questi ultimi anni sta succedendo un fatto nuovo che desta non poche preoccupazioni:  consiste nel fatto che molti cinesi si dimentichino come scrivere un carattere a loro precedentemente noto e la colpa viene spesso attribuita all'uso sempre più frequente  di computer e cellulari che permettono di inserire i caratteri nei testi usufruendo solo della trascrizione fonetica (pinyin), senza quindi conoscere la loro forma. Le persone affette da questo fenomeno di amnesia sono ancora capaci di leggere i testi scritti in cinese o giapponese, dato che, visualmente, riconoscono ancora i simboli difficili della loro lingua, ma non sono più in grado di scriverli senza l'aiuto di un metodo di input su dispositivi elettronici, non ricordando più i singoli tratti che li compongono.
Negli anni ottanta, le macchine da scrivere elettroniche e, più tardi, anche i computer, diventano un modo alternativo di scrivere la lingua cinese e giapponese. Ed ecco che il buon Cang Jie è tornato alla ribalta nella difesa della scrittura tradizionale.
Cangjie è proprio il nome di un popolare metodo di input cinese basato sulla forma del carattere: ad ogni lettera della tastiera occidentale viene infatti associata una forma base (un componente) del carattere cinese e quindi digitando una sequenza di lettere si ricompone il carattere desiderato. Tuttavia, i sistemi che utilizzano solo la pronuncia fonetica dei simboli sono molto più usati, dato che non richiedono la conoscenza dell'aspetto del carattere e sono anche più facili da usare. In Cina, oltre il 97% della popolazione che possiede un computer scrive i testi attraverso un sistema di inserimento fonetico.
Con l'avvento del Web nel 1991 e con la conseguente diffusione dell'uso del sistema delle email, chat su Internet e forum di discussione, la gente ha iniziato a comunicare quotidianamente in cinese e giapponese usando i computer. Oggi, il numero dei computer è aumentato, così come l'utilizzo degli SMS, soprattutto fra i giovani, e ciò significa che una grande parte del popolazione si serve dei sistemi di input e non è più abituata a scrivere a mano quotidianamente. Nel 2010, un sondaggio di Dayang Net ha stabilito che il 43% dei partecipanti ha affermato di usare molto i computer per lavoro, e che scrive a mano solo per rispondere a questionari oppure per firmare dei documenti…come andrà a finire?

domenica 9 novembre 2014

Yao, Shun, Yu, la trasmissione ideale del potere



Nella tradizione mitologica cinese, oltre ai «Tre augusti» (三皇sān huáng) campeggiano i «Cinque Imperatori» (五帝wǔ dì), tanto che spesso sono accumunati (三皇五帝 sān huáng wǔ dì). Gli storici moderni ritengono che questi sovrani siano il risultato della fusione di personaggi reali, antichi capi di varie etnie, e personaggi mitologici. Sono rappresentati come antichi civilizzatori che usarono la loro saggezza e i loro poteri per migliorare la vita degli uomini. I «Cinque Imperatori», considerati i regnanti modello ed esempi di grande moralità dal mondo confuciano, furono:
1.      Huang Di (黄帝), il mitico Imperatore Giallo
2.      Zhuan Xu (顓頊),
3.      l’imperatore Ku (帝嚳),
4.      l’Imperatore Yao ()
5.      l’Imperatore Shun ()

Del mitico imperatore Giallo abbiamo già parlato (leggi: Huang Di, il Mitico Imperatore Giallo).

Oggi parliamo degli altri ed in particolare di Yao e Shun, che godono di una particolare  fama nel mondo cinese: essi rappresentano l’ideale del “buon governante”. Gran parte della loro popolarità deriva indubbiamente dalla venerazione che per loro ha avuto la scuola confuciana: sono ammirati non tanto per quello che hanno fatto, quanto per il modo in cui hanno vissuto, come modelli ideali di umanità e di capacità di governo. In particolare Shun è ricordato per la sua modestia ed amore filiale, tema questo particolarmente caro a Confucio.


 In ogni caso, nella tradizione mitologica cinese l'imperatore Shun rappresenta gli albori di un sentimento nazionale unitario cinese avendo egli contribuito a diffondere alcuni principi legali e religiosi, ma soprattutto alcuni standard di riferimento nella misura del peso e del tempo e certe tecniche agricole.
Shoahao
Huang Di fu molto prolifico: dalle sue quattro mogli ebbe ben venticinque figli! Alla sua morte gli successe il figlio maggiore Shaohao, che governò dal 2597 al 2514 a.C. anche se, pare, senza il titolo di “imperatore”. Tuttavia sembra che le tribù ad un certo punto preferissero al lui il nipote Zhuanxu, figlio di Changyi, l’ultimo nato di Huang Di. Zhuanxu regnò fino al 2436 a.C. Si attribuiscono a lui una riforma del calendario, importanti studi astrologici, il contrasto allo sciamanesimo in favore di una religione di stato più strutturata, e la riforma del diritto di famiglia con la proibizione dei matrimoni tra consanguinei.
Secondo gli Annali di Bambù una delle più antiche fonti storiche, quando  Zhuanxu morì, un discendente di Shennong (uno dei Tre Augusti) di nome Shuqe, tentò di conquistare il potere ma fu sconfitto da Ku, che conquistò il trono e antepose al suo nome il titolo “Di” (imperatore). Ku era figlio di Jiao Ji, figlio di Shaohao, il primogenito dell’Imperatore Giallo e quindi pro-nipote dell’Imperatore Giallo: si ipotizza che abbia regnato tra il 2436 e il 2366 a.C.

Ku

A Ku sono attribuite le invenzioni di strumenti musicali, quali tamburi, campane, ocarine e flauti. Secondo la tradizione, Ku ebbe quattro figli da quattro mogli: dopo 45 anni di governo Ku designò il principe di Tang (il suo figlio minore Yao) come suo successore, tuttavia essendo Yao molto giovane, dopo la morte dell’ imperatore, il potere fu assunto dal suo figlio maggiore Zhi che governò per nove anni prima di essere deposto da Yao. In ogni caso la gloria non mancò anche agli altri due figli che vennero considerati (anche se a posteriori) i fondatori ancestrale di altrettante dinastie: Xie, nato miracolosamente dalla moglie Jandi  di Ku dopo che lei ingoiò un uovo di un uccello nero, fu assunto come fondatore pre-dinastico della dinastia Shang; un altro figlio, Houji, nato miracolosamente dall’altra moglie Jiang Yuan dopo che lei appoggiò il piede su un orma di un dio, fu assunto come padre nobile della dinastia Zhou.
Secondo la tradizione Yao diventò imperatore a 20 anni e morì a 119, lasciando il trono ad un certo Shun che non aveva nulla a che fare con i discendenti dell’Imperatore Giallo. Ma chi era questo Shun?
Shun proveniva da una famiglia contadina: la leggenda racconta che sua madre era morta quando egli era ancora piccolo. Il padre Gu Sou, che era cieco, si era risposato e la nuova moglie gli aveva dato un altro figlio ed una figlia. La matrigna, il fratellastro e la sorellastra trattarono Shun in modo terribile, costringendolo ai lavori più umili e faticosi e dandogli solo il cibo e le vesti peggiori. Il padre, essendo cieco e vecchio, ignorava come Shun fosse trattato ed anzi spesso lo sgridava anche per piccole mancanze. Nonostante ciò Shun non si lamentò mai e sempre trattò il padre, la matrigna ed i fratellastri con rispetto e gentilezza. Quando raggiunse l'età adulta la matrigna lo scacciò di casa e quindi Shun fu costretto a vivere da solo e ad arrangiarsi. Nonostante ciò, grazie alla sua natura compassionevole e la sua capacità di essere autorevole, ovunque andasse, la gente lo seguiva ed egli fu in grado di organizzare le persone affinché fossero più gentili fra loro e lavorassero al meglio possibile.
E qui la fantasia dei cinesi si scatena in una serie infinita di aneddoti imbevuti di sana morale confuciana: quando Shun arrivò in un villaggio che produceva ceramiche, dopo meno di un anno, le ceramiche divennero più belle, più belle di quanto non fossero mai state. Quando Shun giunse in un villaggio di pescatori, questi stavano litigando fra loro per i territori di pesca e molte persone venivano ferite o uccise nei combattimenti. Shun insegnò loro come condividere e distribuire le risorse della pesca e presto il villaggio prosperò e tutte le ostilità cessarono.
La sua fama si era sparsa dovunque e presto ne venne a conoscenza anche Yao che stava avvertendo il peso del governo. L’imperatore era preoccupato del fatto che i suoi nove figli erano tutti incapaci e sapevano  soltanto come trascorrere le giornate fra vini e canti. Yao aveva chiesto perciò ai suoi ministri di proporre un degno successore. E fu così che Shun fu raccomandato al sovrano dai suoi feudatari come la persona migliore per succedergli al governo del paese. A quel punto Yao  volle mettere alla prova Shun affidandogli il governo di un distretto e dandogli in moglie le sue due figlie con una piccola dote (una casa nuova ed un poco di denaro).  Così, all’età di trent’anni, Shun abbandonò la sua via di contadino per condividere le responsabilità del governo dell’ impero. Le capacità amministrative di Shun diedero conferma a Yao della fiducia che aveva riposto in lui. Sebbene disponesse di un ufficio e di denaro, Shun continuò a vivere morigeratamente e continuò a lavorare nei campi quotidianamente. Cercò anche di convincere le sue mogli, Ehuang (Fata Splendente) e Nüying (Fanciulla Fiorita), che erano abituate a vivere nel comodo e nel lusso a vivere con poco ed a lavorare fra la gente. Intanto la matrigna ed i fratellastri di Shun erano sempre più invidiosi e tramavano per assassinarlo. Una volta il fratellastro Xiang diede fuoco ad un fienile e convinse Shun a salire sul tetto per spegnere l'incendio, ma Xiang allontanò la scala intrappolando Shun sul tetto in fiamme. Ma Shun abilmente costruì una sorta di paracadute con la sua giacca ed i suoi vestiti e saltò giù dal tetto illeso. Un'altra volta Xiang e sua madre tramarono per ubriacarlo e poi gettarlo in un essiccatoio e seppellirlo con pietre e sporcizia. La sorellastra che non approvava il comportamento di sua madre e suo fratello, avvertì Shun che si preparò. Finse di essere ubriaco e quando fu lanciato nell'essiccatoio riuscì a fuggire grazie ad un tunnel che aveva scavato in precedenza. Così Sun sopravvisse a molti attentati ma non si vendicò mai sulla matrigna e fratellastro, perdonandoli ogni volta. Non solo Shun perdonò la matrigna ed il fratellastro ma aiutò Xiang a trovarsi un impiego e tentò anche di convincere i suoi nove cognati ad impegnarsi di più per diventare membri utili alla società.
Durante il regno di Yao, Shun ricoprì la carica di Ministro per l'istruzione, Regolatore Generale (Primo Ministro) e Capo dei Quattro Picchi (i Quattro Ministri più importanti) e riuscì a sistemare in tre anni i conti dello stato. La prosperità della nazione era tuttavia messa a rischio da una serie di violente inondazioni che iniziarono nel sessantesimo anno del regno di Yao. I danni erano enormi e Yao era seriamente preoccupato per il suo popolo. Con qualche esitazione, Yao affidò il compito di regolare le acque a Gun  (un pro-nipote di Changyi, l’ultimo figlio di Huang Di e quindi anche lui discendente dall’Imperatore Giallo)  che tuttavia fallì nel suo compito: avendo egli nel frattempo commesso altri crimini cadde in disgrazia e fu condannato a morte da Shun. Quello che è strano è che Shun chiese poi a Yu, figlio di Gun, di succedergli in questo difficile compito. Yu impiegò otto anni per domare le acque: invece di costruire alte dighe come aveva fatto il padre,  egli fece dragare i letti dei fiumi e fece costruire tutta una serie di canali artificiali per scaricare le piene in mare. A seguito del suo grande successo ingegneristico, Yu divenne rapidamente un idolo nazionale.
Yao morì a 117 anni, tuttavia Shun rifiutò di prendere il trono: evidentemente voleva lasciare una possibilità ai figli di Yao, ma i vassalli fecero una tale pressione in favore di Shun che, dopo tre anni di lutto, anche se con riluttanza,  assunse il titolo reale.
Dopo essere salito al trono Shun offrì sacrifici agli dei così come alle colline, ai fiumi ed ai luoghi che ospitavano spiriti. Poi si recò ai quattro estremi (nord, sud, est, ovest) del regno ove offrì sacrifici in ognuno delle quattro montagne (Monte Tai, Monte Huang, Monte Hua, Monte Heng).


Rese più saldi i rapporti con i vassalli stabilendo un calendario di incontri ufficiali. Stabilì una uniforme misura della lunghezza e della capacità, modificò il calendario per renderlo utile ai lavori agricoli e riformò le leggi religiose. Shun modificò anche il modello musicale cinese, chiamato Dashao (大韶), che si compone di nove strumenti musicali.
 Shun divise il regno in dodici provincie e costruì dodici templi in ciascuna di esse. Si impegnò nella unificazione e pacificazione del regno riformando le leggi, rendendole più miti, sostituendo per cinque gravi reati la pena di morte con l'esilio e combattendo la corruzione dei funzionari. Stabilì che ogni tre anni l'operato dei funzionari imperiali venisse sottoposto a verifica. Chiamò molti privati meritevoli e capaci a prendere parte all’azione di governo e non esitò a punire in modo esemplare i funzionari corrotti. Shun fu l’autore dello schema di controllo dei ministri secondo cui ognuno doveva dare un rapporto dettagliato della propria attività ogni tre anni, mentre i feudatari dovevano rendere conto all’imperatore ogni anno sulla propria azione di governo locale.
Nell'ultimo anno del suo regno Shun decise di intraprendere un viaggio attraverso il regno. Si recò presso il picco di Shunyuan per insegnare alla popolazione di un villaggio come meglio coltivare il the, per fondare una scuola ma, nel tentativo di liberare il villaggio da un pericoloso serpente, fu da questo morsicato e ammalò e morì nei pressi del fiume Xiang. Le sue due mogli si recarono in quei luoghi per vegliare il suo corpo ma non riuscirono a trovarlo e restarono presso le rive del fiume per giorni piangendo e cercando. Le loro lacrime si tramutarono in sangue e macchiarono le rive del fiume. Da quel giorno il Bambù che cresce lungo quelle rive è macchiato di rosso (è una varietà particolare: lo Xiangfei Bamboo). Non trovando il corpo di Shun alla fine decisero di fermarsi presso il picco di Shuyuan (della catena dello Jiuling, nello Hunan) dove morirono per il dolore e furono a loro volta tramutate in due picchi (il picco Ehuang ed il picco Nüying) e da allora vengono ricordate come "le dame dello Xiang". Le loro tombe si trovano sull'isola di Junshan. Nel luogo dove si ritenne fosse morto, nei pressi del picco Shunyuan fu poi costruito un mausoleo: il "mausoleo Ling".

Shun governò per 47 anni e gli successe, indovinate chi? Il Grande Yu, il Regolatore delle Acque!


 http://it.wikipedia.org/wiki/Shaohao
http://bhoffert.faculty.noctrl.edu/HST261/00.Introduction.html