Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

martedì 21 febbraio 2012

Ibn Battuta: il Marco Polo arabo

«Uscii da Tangeri, mia città natale il giovedì 2 del mese di Rajab 725 [14 giugno 1325] con l’intenzione di fare un pellegrinaggio alla Mecca e di visitare la tomba del Profeta...»

Così inizia il libro Rihla, cioè Viaggio (arabo: ﺭﺣﻠـة‎), il racconto dei viaggi straordinari di Ibn Battuta: l’islam medievale ha avuto numerosi viaggiatori arabi, ma nessuno è stato cosi importante come Ibn Battuta. Egli ha viaggiato per una trentina d’anni attraverso il mondo nella stessa epoca in cui visse Marco Polo. Pur avendo intrapreso viaggi avventurosi e temerari, tali da competere con quelli del più noto viaggiatore italiano e da farli meritare l’appellativo di «Marco Polo arabo», egli rimane incredibilmente sconosciuto in Europa e forse non abbastanza apprezzato nello stesso mondo arabo.


Abū ‘Abd Allāh Muḥammad Ibn ‘Abd Allāh al-Lawātī al-Tanjī Ibn Baṭṭūṭa, (questo è il suo nome completo!) noto semplicemente come Ibn Baṭṭūṭa (ابن بطوطة) era nato a Tangeri, in Marocco nel 1304, all’epoca della dinastia dei Marinidi e apparteneva ad una famiglia di giuristi musulmani. Il racconto di dei suoi viaggi straordinari non è stato redatto da lui personalmente, ma da uno scriba del sultano merinide Abu Inan, un mecenate come molti sovrani arabi. Nel 1354, lo scriba iniziò ufficialmente la stesura del racconto completo di Ibn Battuta e lo terminò un anno dopo. Ibn Juzay, il giovane scriba di origine Andalusa diede al racconto un titolo molto lungo, la cui traduzione risultò pesante e poco estetica. Il titolo suona infatti in arabo:

تحفة النظار في غرائب الأمصار وعجائب الأسفار‎

Tuḥfat al-naẓār fī gharāʾib al-amṣār wa ʿajāʾib al-asfār,

che è traducibile come: "Il dono per chi osserva le peculiarità dei centri abitati e le meraviglie che si parano di fronte ai viaggiatori".

Questo titolo è stato spesso sostituito più efficacemente dall’unica parola Rihla, che divenne anche il nome di un genere letterario molto apprezzato in Nord Africa tra il XII e XIV secolo, le cronache di viaggio appunto. Solo nel XIX secolo l’Europa si interessò al nostro etno-geografo quando due studiosi tedeschi pubblicarono separatamente due traduzioni di alcune parti della Rihla. La traduzione completa fu eseguita da Defrèmy e Sanguinetti, due studiosi arabisti francesi. Il lavoro durò dal 1853 al 1858 e apparse con il titolo di: Viaggio di Ibn Battuta.

Nel suo racconto, egli ci parla della parte più estesa del mondo abitato a quel tempo riferendosi all’Arabia, Siria, Egitto, Maghreb, Sudan, Afghanistan, India, Cina, Indonesia ecc ...

Ma vediamo brevemente il contenuto della Rihla. Il viaggio di Ibn Battuta inizia con il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca, che ogni islamico dovrebbe fare almeno una volta nella vita. Parte da solo e con pochi soldi, confidando nella rete di istituzioni che l'islam prevede a favore di chi viaggia. Ma l’inizio del viaggio è molto faticoso: arriva ad Algeri unendosi ad una carovana di mercanti, ma a Bejaia lo assale una forte febbre e verso Costantina alcuni briganti cercano di derubarlo. Dopo mille peripezie, non piacevoli, arriva ad Alessandria nell’aprile del 1326, dieci mesi dopo aver lasciato Tangeri. Là rimane per alcuni giorni con un venerato sufi, Burhan al-Din, il quale gli propone di estendere il suo pellegrinaggio andando a visitare un suo confratello nella lontana India.

Attraversato l’Egitto, sosta per qualche mese in Siria e poi lascia Damasco per l’Arabia. In una puntata a Gerusalemme, prima di proseguire alla Mecca, Ibn Battuta conosce un altro maestro sufi della confraternita Rifa'i, Abd al-Rahman ibn Mustafa che lo prende a ben volere e gli regala una khirqa, il mantello rattoppato dei sufi, simbolo della povertà dall'orgoglio mondano. Dai frequenti riferimenti agli incontri con i sufi per tutta la durata dei suoi viaggi, si capisce che Ibn Battuta era un affiliato o aveva comunque una certa dimestichezza in quell’ambiente: in effetti anche in Marocco e nella sua Tangeri il sufismo era ben radicato ed amato sia dal popolo sia dagli intellettuali, un po’ meno dal potere, in quanto i sufi sono noti per la loro incorruttibilità.

Sono i primi giorni del mese di Settembre 1326 ed ecco il nostro giovanotto arriva alla Mecca: dopo essersi tagliato i capelli ed aver indossato lo ihram, una veste bianca a simboleggiare l'uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, bacia la pietra nera, già allora levigata dall'uso, nell'angolo destro esterno della Ka'ba. Compiuti tutti i riti, sosta alla Mecca, in un ospizio dei sufi, per studiare, riposarsi, guardarsi intorno. Nota i mercati pieni di frutta d'ogni genere pur nel mezzo del deserto, e come «le donne della Mecca siano di rara ed incomparabile bellezza, pie e virtuose ».


Dopo il soggiorno alla Mecca per Ibn Battuta ritornare indietro significava rinnegare la promessa fatta allo shaik di Alessandria di andare in India. Inoltre aveva preso gusto a viaggiare, a esplorare le terre dell'Islam più lontane di cui sentiva parlare quando era ragazzo. Qui inizia una specie di vagabondaggio, senza una precisa meta, che ci mostra quanto fosse importante per Ibn Battuta non tanto la destinazione quanto il viaggio in sé.

Ed eccolo a Baghdad, a Bassora a Esfahan, [oggi in Iran] dove non manca mai di sostare presso le comunità sufi. Poi è la volta dello Yemen. Sotto scorta di un fratello sufi tra i sentieri di montagna, prosegue verso Aden e poi verso la costa africana visitando Zeila, Mogadiscio e Kilwa, situata ad ovest della punta settentrionale del Madagascar. Da Kilwa, con i venti propizi, salpa verso le coste del sud est della penisola arabica e precisamente a Zafar. Con un'altra imbarcazione prosegue verso il golfo di Oman facendo numerosi scali tra cui ad al-Hallaniya, un'isola dove su una collina vive un periodo di ritiro un anziano sufi: ovviamente, il nostro protagonista, non manca di andarlo a trovare. Il resto del viaggio è però per lui un tormento, in quanto vede i marinai e gli altri viaggiatori cibarsi di uccelli marini arrosto, però non sgozzati, e quindi contro i precetti islamici. Lui si accontenta di qualche galletta rancida comprata a Zafar. Ibn Battuta disgustato da questo fare barbaro, decide di proseguire a piedi assoldando come guida uno dei marinai: pessima scelta, in quanto il marinaio, cercherà di ammazzarlo per rubargli i vestiti. Arrivato a Qalhat dopo aver superato aridi territori, coi piedi gonfi e sanguinanti, si concede una settimana per riprendersi. Nell'inverno ritorna finalmente alla Mecca.

Rimaneva sempre aperto il progetto del viaggio India: così Ibn Battuta, sul finire del 1330, si imbarcò a Latakia in Siria su una nave mercantile genovese diretta in Anatolia. Nulla di strano per lui, non nuovo a stravaganze: Ibn Battuta afferma di avere sempre evitato, laddove possibile, di passare due volte per la stessa strada, fu così che si diresse verso l'India non per la via più breve, ripassando dalla Persia, bensì per quella più difficile tra le steppe dell'Asia centrale, dalla regione del Volga alle coste del lago d'Aral. Ma vediamo i dettagli del viaggio.

A Sinope, sul mar nero, si imbarca su un mercantile, probabilmente genovese, diretto in Crimea. Furiose tempeste portano l'imbarcazione sul punto di affondare, ma i passeggeri se la cavano soltanto con una buona dose di paura. Sbarcano a Kaffa, [oggi Fedosiya] dove i genovesi avevano la loro colonia più numerosa. Qui Ibn Battuta mostra un aspetto deplorevole di fanatismo, soprattutto per un seguace del sufismo, i cui valori si ispirano alla tolleranza. Forse stressato dal viaggio e bisognoso di riposare monta su tutte le furie quando le campane delle chiese cominciano una dopo l'altra a martellare le sue orecchie: preso da un impeto di vendetta, sale di corsa con i suoi sulla cima del minareto per recitare a squarciagola il Corano. Il qadi [giudice] del luogo si precipita, armato fino ai denti, sul minareto per fare star zitta quella comitiva sul punto di far scoppiare una guerra religiosa. Per fortuna tutto finisce lì, in quanto i genovesi non avrebbero avuto niente da guadagnare con delle baruffe.




Dopo questo episodio, il nostro si sposta ad al Qiram, dove, secondo lui, c'erano meno campane, alloggiando in una tekke [abbazia] sufi. Qui compra tre carri e muli per tirarli, ed una giovane schiava greca. La squinternata carovana incrocia ad un certo punto quella più dignitosa e sfarzosa del khan mongolo in persona. Fatta in fretta amicizia, prega con lui alla festa della rottura del digiuno, dopodiché tutti a tavola! Qui ne combina un’altra delle sue, perché, in barba ai precetti islamici, non rifiuta il vino del banchetto, prendendosi una sbornia colossale. Sorvolando ipocritamente sulla sua mancanza, si sofferma invece a commentare il fatto che sia la moglie del khan, sia le altre donne, pur essendo musulmane girano senza velo. Nella Rihla riferisce con dovizia sulla libertà e sul rispetto che godono le donne mongole e turche, con costumi così diversi da quelli arabi.

Sicuramente Ibn Battuta è dotato di grandi capacità di relazione e sa vendersi molto bene: naturalmente la sua carovana viene inglobata in quella più grande e, dopo diverse vicissitudini, si trova a viaggiare, vestito di una bellissima tunica, su un carro fuoriserie trainato da tanti e bellissimi cavalli, insieme alla principessa Bayalun. Essa, incinta di qualche mese, aveva chiesto il permesso al marito di andare a partorire da suo padre, l'imperatore Andronico III re di Bisanzio. Il sultano, che aveva sposato la figlia dell'imperatore bizantino per motivi diplomatici, non ebbe nulla da obiettare. Ovviamente Ibn Battuta non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di visitare la corte di Bisanzio ed ottiene, pure lui, il permesso di accodarsi alla nuova carovana, con tanto di regali. L'india poteva aspettare.

Ibn Battuta fa dei bei commenti su Costantinopoli, ma in realtà, dietro e fuori le mura, si trattava di un mondo in crisi, pronto a crollare come in effetti successe. Bayalun, una volta giunta in città, decide di rimanervi (pare che sia ritornata dal marito diversi anni dopo...) e rimanda indietro la comitiva, Ibn Battuta compreso. Ma il terribile inverno asiatico era alle porte: il ritorno fu durissimo. Egli ricorda che quando si lavava la faccia l'acqua gli si gelava tra la barba e ricadeva in frammenti di ghiaccio. Per quanto si coprisse aveva sempre freddo: tre pellicce una sopra l'altra, doppio paio di calzoni e mutandoni, doppie calze lunghe e spesse, stivali in cuoio foderati di pelliccia d'orso. Il gruppo semi-ibernato riuscì comunque ad arrivare a Nuova Sarai, sul Volga, dove stava alloggiando il khan, per riferirgli ogni accaduto.

Evidentemente Ibn Battuta aveva capitalizzato la sua lunga digressione: quando ripartì dal Volga per dirigersi, questa volta veramente, in India, era ricchissimo. Cavalli a non finire, gioielli, schiavi ed almeno tre giovani donne nel suo carro (si comincia qui a intuire l’attrazione che il nostro provava per il gentil sesso...). Tutte donazioni fatte, oltre dal khan, anche dai nobili via via incontrati. Sicuramente Ibn Battuta aveva imparato a gestire la sua immagine, a farla valere, ed il mondo è «una immagine» [concetto di modernità impressionante!]: proprio per questo, dicono i sufi, non vale un soldo bucato. In ogni caso se Ibn Battuta non avesse avuto una buon livello d'istruzione, delle capacità fuori dal comune, non avrebbe potuto gestire la sua immagine come ha fatto. Non era solo fumo negli occhi. All'inizio era un pellegrino a cui si donava una ciotola per pietà, a poco a poco divenne uno studioso abbastanza importante a cui i sovrani si sentivano in dovere di rendere omaggi. Ed Ibn Battuta ci prese gusto. Forse un po’ troppo, come vedremo.

Il tragitto verso Delhi del nostro attento viaggiatore, fu ricco di incontri con fratelli sufi , ma tra tutti spicca la sua visita a Multan allo shaik Rukn al Din Abu l'Fatah, proprio quello che il mistico di Alessandria d'Egitto sette anni prima gli aveva chiesto di incontrare!

Anche a Delhi entrò rapidamente nelle grazie del sultano che gli affidò la carica di qadi. Egli amministrò vasti territori ma sembra essersi dimostrato poco sensibile nei riguardi della povera gente: invischiato nei cerimoniali e negli intrighi di corte, aveva poco tempo per accorgersi del prossimo. Ma nonostante tutti gli accorgimenti adottati per rimanere a galla, cadde in disgrazia a causa della sua amicizia con lo shaik Shihab al Din, il quale, trattava apertamente con distacco il sultano, che cercava l'impossibile: sottomettere i sufi al suoi volere come se fossero comuni ulama ed imam religiosi.

A causa dell'amicizia con Shihab, Ibn Battuta rischiò l'esecuzione come traditore. Egli racconta di aver digiunato ininterrottamente per diversi giorni, recitato giornalmente tutto il Corano e le parole ispirate in cuor suo: «Sufficiente ed eccellente è per noi Dio come protettore». E venne la grazia. Si ritirò dunque in una caverna con un sufi, da molto impegnato in uno stile di vita rigorosissimo. Dopo cinque mesi di astinenze e dopo aver rischiato il collasso, Ibn Battuta decise di aver espiato a sufficienza. Stava per ripartire per la Mecca quando il Sultano lo chiamò, come se niente fosse successo, per dargli l'incarico di ambasciatore in Cina. Doveva portare una nave di doni per l'imperatore e scortare una delegazione di 15 cinesi. Qui si ricordò che il saggio di Alessandria, venti anni prima, gli aveva predetto che un giorno avrebbe visitato anche la Cina: era un'occasione unica da non poter lasciare, eppoi, una volta in Cina... chi s'è visto s'è visto.

A proposito di questa ultima fase dei viaggi di Ibn Battuta, c’è da dire che non tutto sembra affidabile: mancano episodi vivi e le descrizioni sono spesso lacunose e incerte. Nessuno ha dimostrato che Ibn Battuta non abbia visitato la Cina anche se, le imprecisioni del racconto, mettono a dura prova il tentativo di far chiarezza sulla struttura di questa fase del viaggio. Forse non andò oltre Canton: qui riferisce di aver comprato una bellissima giovane schiava (!) e di aver soggiornato presso una famiglia veneziana, nel quartiere musulmano. Le descrizioni di Fuzhou, Hangzhou e Pechino sono così storicamente vaghe da renderle inattendibili: non è improbabile che Ibn Battuta riporti qui informazioni avute da altri commercianti arabi che avevano visitato quei posti.



A questo punto viene spontaneo il confronto con il nostro Marco Polo: Marco aveva visitato la Cina una sessantina di anni prima del viaggiatore arabo: dal confronto tra Il Milione e Rihla emergono due sguardi che, pur avendo tratti comuni, appaiono profondamente radicati nelle matrici storico-culturali e religiose di appartenenza. Entrambi furono favoriti da quella pax mongolica che all'epoca facilitava i collegamenti; entrambi soggiornarono nella Cina della dinastia mongola degli Yuan, che si dimostrò molto aperta verso gli stranieri.

Sia Marco Polo che Ibn Battuta sono ben consapevoli dell'eccezionalità della propria impresa ed entrambi credono nella necessità del narrare per poter condividere un patrimonio di scoperte. Gran parte della narrazione delle due opere è dedicata alla descrizione delle città e della loro popolazione, commercio, alimentazione, abbigliamento, abitazioni e mezzi di trasporto. E' vero che le informazioni forniteci su questi contesti di vita, come prevedibile, combaciano raramente, ma il ricercare le tante piccole differenze presenti nelle descrizioni degli stessi scenari urbani non è l'aspetto più interessante su cui soffermarsi.

Appare invece molto più interessante capire il modo, quasi opposto, in cui i due si avvicinano alle diverse culture che incontrano durante i loro viaggi. Ibn Battuta ha come sicuro ed incrollabile punto di riferimento la cultura araba del Corano e ciò che per lui conta nei viaggi è la rilevazione di ciò che è simile: la presenza dell'Islam. Ciò gli rende faticoso vivere nel diverso ed egli soffre visibilmente a contatto di tradizioni, usanze e leggi tanto diverse dalle sue. Il vero e proprio «shock culturale» non è invece sentito dall' europeo e cristiano Marco Polo che applica al diverso le elasticità tipiche della gente veneziana, abituata al contatto con mondi stranieri, mentre invece lascia ampio spazio alla curiosità.

Questi diversi modi di rapportarsi sono ben visibili anche nel loro avvicinarsi alle religioni dei popoli incontrati. Marco Polo chiama idolatre le religioni diverse dal Cristianesimo, ma è comunque molto attento ad annotarne tutti i riti. Ibn Battuta, primo viaggiatore arabo a fare del viaggio una scelta esistenziale non al comando di sovrani, è totalmente interessato solo a ciò che è espressione del mondo musulmano, mondo che invece Marco Polo, pur non avendo basi conoscitive, critica aspramente.

Lo sguardo dei due viaggiatori si fa molto più simile solo nella descrizione di aneddoti e leggende. Qui non esiste più la differenza tra uomo cristiano e uomo musulmano, ma solo due uomini ugualmente figli della mentalità medievale. Ibn Battuta elogia le bellezze della seta, nota che in Cina la porcellana fine costa meno del vasellame comune in India o in Arabia, elogia la sicurezza sociale giacché non v'erano ladri e banditi, i giochi di illusionismo, la dolcezza dei frutti, le distese sconfinate, i polli enormi. Descrive l’uso diffuso di carta moneta: «se qualcuno va al bazar con dei dirham d’argento o dei dinari, nessuno li accetta a meno che non vengano cambiati in balish [la moneta di carta]». Tuttavia scrive «La Cina, con tutte le sue magnificenze, non mi è piaciuta... non mi davo pace che questo paese fosse in mano ai pagani...ho visto tante cose spiacevoli in giro che me ne stavo in casa ed uscivo solo per le necessità. Quando incontravo un musulmano avevo l’impressione di incontrare un famigliare...». Dopo un soggiorno di quasi un anno, in Cina scoppiò una rivolta popolare, fornendogli la scusa per lasciare il paese. I monsoni autunnali del 1346 cominciavano già a soffiar: era il momento di ritornare, con una ventina d'anni in più, a casa.


Nel frattempo, in occidente era scoppiata una terribile epidemia di peste: Ibn Battuta si trovò nel mezzo di questo clima apocalittico, vedendo ogni giorno centinaia di morti. Riuscì comunque ad arrivare alla Mecca nel 1348, dove rimase per quasi cinque mesi, ringraziando Iddio di non essere stato ancora toccato dalla morte nera. Si diresse poi, soggiornando presso i sufi, a Medina, Gerusalemme, nel Sinai ed infine al Cairo. Ritrovò questa città disastrata dalla peste e dalle lotte intestine di potere. Salpò dall'Egitto su una imbarcazione tunisina e seguendo le coste nordafricane arrivò a Tunisi, ed infine, passando nell'entroterra per Fez, a Tangeri. Ibn Battuta quasi sorvola il suo ritorno al paese natale, dice solo di aver visitato la tomba della madre. Non ci parla dei suoi sentimenti e delle emozioni provate nel non trovare più, nella propria vita, tante persone care.

Ma ritornato in patria, il demone del viaggio si impadronisce ancora di lui e lo vediamo in Spagna, nel Sahara, in Sudan, nel Mali. Nel 1353, a quasi cinquant’anni, ritorna a Fes. La Rihla era durata circa trent’anni ed egli aveva percorso 120.000 kilometri. Nulla si sa della vita di Ibn Battuta dopo la stesura del libro. Ma conoscendo il suo passato c'è da credere che non si ritenne mai un...pensionato.

Tutto vero ciò che è raccontato nella Rihla? Già tra i contemporanei di Ibn Battuta c'era chi metteva in dubbio la sua buona fede: alcuni episodi ora accertati o considerati verosimili, sembravano stranezze incredibili e sbruffonerie. Di certo Ibn Battuta non manca di incensarsi come illustre studioso e giurista in un narcisismo che, come sempre, nasconde la realtà. Egli era istruito, ma nulla più. In una madrasa [scuola coranica] affermata, a confronto dei luminari del tempo, i suoi limiti culturali sarebbero balzati evidenti. Gli incarichi prestigiosi che ebbe, come a Delhi ed alle Maldive, sono dovuti a circostanze particolari e soprattutto perché mancavano professionisti di rilievo in campo accademico, giuridico e amministrativo. Inoltre Ibn Battuta si rende poco attendibile incensandosi spesso e volentieri, soprattutto come difensore della moralità, custode integerrimo della legge coranica raccontando episodi autobiografici in cui rivela invece una buona dose di bigottismo e ristrettezza mentale.


Che poi abbia disseminato tutto il dar al-Islam di suoi figli, mogli e concubine usa e getta, che si sia servito di amicizie e conoscenze solo per i suoi scopi ambiziosi ed abbia tramato nell'ombra per temporanee paranoie di potere, non lo turba minimamente. Nei suoi racconti si preoccupa di mostrarsi uomo devoto, ed effettivamente, la Rihla può essere vista come un via vai di pellegrinaggi a luoghi sacri, abbazie sufi, a maestri ed eremiti. Personaggio dunque contraddittorio questo Ibn Battuta, pio e severo musulmano per mantenere una immagine esemplare davanti a sé e agli altri, ma in diverse circostanze poco attento al suo prossimo, se non ai nobili (operazione di facciata naturalmente) per poterne sfruttare l'amicizia. La Rihla descrive anche il viaggio di un avventuriero alla ricerca di successo che, quando raggiunto, viene ostentato pesantemente. Può emergere una figura detestabile e spocchiosa da quanto detto, ma non è così. Nonostante tutto è proprio la sua simpatia, la capacità di entrare subito in relazione con gli altri, l'intraprendenza, l'intelligenza di trovare quello che serve al momento giusto a portarlo in un'avventura meravigliosa da un grande oceano all'altro, piacevole da rivivere, anche oggi.

Fonti:

http://www.arab.it/ibnbattouta.htm
http://it.wikipedia.org/wiki/Ibn_Battuta
http://www.elec-intro.com/ibn-battuta
http://www.arab.it/ibnbattouta_marcopolo.htm
http://www.lettera22.it/showart.php?id=6563&rubrica=80
http://www.puntosufi.it/battuta1.htm
http://www.misterdann.com/mildistravelers.htm

domenica 12 febbraio 2012

Neve, ghiaccio, freddo polare? I cinesi ad Harbin ne hanno fatto un business!

Harbin è la capitale della provincia di Heilongjiang nel nord-est della Cina al confine con la Russia. Durante i lunghi e freddi mesi invernali le temperature in quelle zone arrivano a -30°, ma gli abitanti di Harbin hanno trasformato questo aspetto negativo del loro territorio in una opportunità: sculture di neve, lanterne di ghiaccio, fuochi artificiali e divertimenti sulla neve hanno trasformato Harbin in uno delle più popolari attrazioni invernali della Cina.


Il Festival Internazionale del Ghiaccio di Harbin è iniziato dieci anni fa: nei primi anni partecipavano solo i cinesi, ma in seguito la sua fama si è diffusa attirando sempre più visitatori stranieri. Oggi è uno delle quattro maggiori manifestazioni mondiali accanto a Festival della Neve di Sapporo in Giappone, il Carnevale di Inverno di Quebec in Canada e il Festival degli Sci norvegese.

Inizia il 5 Gennaio di ogni anno e si prolunga, ghiaccio permettendo, fino alla fine di Febbraio: in questo periodo persone di tutto il mondo prendono parte ai vari eventi di carattere artistico, culturale e atletico.

Si possono ammirare sculture di neve gigantesche, grandi come un campo di calcio e alte fino a 50 metri, palazzi di ghiaccio illuminati di notte da sofisticati sistemi di illuminazione a LED controllati da dei computer, che mutano continuamente di colore.

Ma più che le parole, parlano alcune immagini!








venerdì 3 febbraio 2012

La Festa delle Lanterne

Il capodanno cinese e i suoi festeggiamenti non sono conclusi. Il finale, col botto, si avrà lunedì 6 febbraio con la Festa delle Lanterne (元 宵节 yuánxiāo jié , letteralmente «Festa della Prima Notte). Cade il primo giorno di luna piena dell’anno e si chiama così perché in Cina viene festeggiata con una sfilata di lanterne, appunto, dalle forme più strane: animali, fenici, draghi, paesaggi, personaggi,…

Perché si appendono le lanterne colorate?

Secondo la tradizione, nel 180 a.C. l’imperatore Wendi, degli Han occidentali, sarebbe salito al trono il quindicesimo giorno dopo l’inizio dell’anno e per commemorare l’evento avrebbe fissato quella data come giorno di festa. Ogni anno, nella sera della prima luna piena, egli lasciava il palazzo per festeggiare con la popolazione. Per l’occasione, tutte le famiglie appendevano lanterne multicolori di forma svariata lungo le strade. A partire dal 104 a.C. l’evento venne inserito fra le maggiori feste nazionali e divenne sempre più importante: vennero formalizzate vere e proprie regole che imponevano la presenza di lanterne in tutti i luoghi pubblici e davanti a ogni casa, in particolare nelle zone più animate o nei centri culturali delle città si dovevano tenere grandi mostre di lanterne, offerte all’ammirazione della popolazione, che poteva anche impegnarsi nella soluzione degli indovinelli ivi iscritti e danzare con le lanterne del drago. La manifestazione divenne così permanente, continuando nei secoli. Secondo i documenti storici, nel 713 al tempo della dinastia Tang nell’allora capitale Chang’an (l’attuale Xian), venne eretto un “monte di lanterne” alto sette metri, realizzato con più di 50.000 lanterne.

Durante la dinastia Song (960-1279) la celebrazione della Festa delle lanterne diventò più popolare e fu prolungata fino a cinque giorni e durante la dinastia Ming (1368-1644) la festa arrivò a durare anche dieci giorni!

Ma come sempre nella cultura cinese, vi sono anche varie leggende sulla festa che spesso hanno origine di carattere religioso: secondo la tradizione taoista, si dice che il 15 gennaio del calendario lunare fosse il compleanno di Tianguan, Dio della fortuna nelle credenze Taoiste. Essendo egli amante di ogni forma di intrattenimento, la festa delle lanterne fosse un modo per pregare per la fortuna.

Un'altra leggenda narra che il divino Imperatore di Giada fosse un giorno molto arrabbiato nei confronti di una città per l’assassinio della sua oca preferita, quindi per punizione avesse deciso di bruciare l’intera città, ma una fata buona di cuore, sentendo ciò, aveva avvertito gli abitanti della città del pericolo, suggerendo loro di accendere nella notte migliaia di lanterne, tale che dal cielo, la città sarebbe parsa come arsa dal fuoco, così che l’Imperatore avrebbe creduto la sua oca vendicata e avrebbe lasciato perdere. Da qui la festa delle lanterne come un modo per ringraziare la fata.

Per l’occasione si possono vedere lanterne multicolori e di ogni forma in ogni parte della Cina, dalle città alle campagne, dove spesso vengono organizzati appositamente eventi di intrattenimento che variano da sfilate di lanterne a vere e proprie festival che si concludono con il classico “drago in fiamme” a rappresentare la risalita del drago in cielo (enormi variopinte lanterne a forma di drago vengono bruciate). Lo spettacolo di lanterne è a dir poco sorprendente, sia per il numero che per la varietà delle forme e dimensioni, si passa dalle lanterne a forma di farfalla, pesce, uccelli, e animali vari (illuminate una volta da piccole candele all'interno, oggi da moderne lampade a led) a vere e proprie strutture complesse nella forma e perfette nei colori che rappresentano draghi, fenici, paesaggi, personaggi...


Le lanterne della festa sono realizzate con carta colorata, tra cui spiccano le lanterne dei cavalli in corsa, decisamente le più caratteristiche. Si tratta di un tipo di lanterna-giocattolo che si dice abbia una storia di più di mille anni. All’interno questa possiede un meccanismo rotante ed una candela, che una volta accesa crea aria calda che sale e fa muovere il meccanismo ed i cavalli di carta ivi applicati, che paiono quindi galoppare. L’ombra dei cavalli si riflette sulle pareti della lanterna, dando dall’esterno l’impressione di una mandria di cavalli sfreccianti.



Trovare la soluzione agli indovinelli delle lanterne, è una delle attività principali durante le esposizioni. I proprietari delle lanterne attaccano degli indovinelli sulle loro lanterne e i visitatori possono staccarli, se ne hanno indovinata la risposta; inoltre ricevono un piccolo regalo. Questo gioco ha delle origini molto lontane: lo si trova già nella dinastia Song.

Secondo la tradizione popolare, durante la festa si mangiano gli yuanxiao (al sud detti tangyuan), dolcetti tipici fatti con farina di riso glutinoso e ripieni di ingredienti dolci, che in Cina simboleggiano la riunione, l’affetto e la felicità familiare.Ad oggi esistono quasi 30 tipi di yuanxiao, con ripieni di pasta di giuggiole, pasta zuccherata di soia rossa, sesamo, cioccolato, ecc. Nelle diverse zone del paese i gusti sono vari, come nella provincia meridionale del Hunan, dove le palline sono di un bianco trasparente, e a Ningbo, nella provincia del Zhejiang, sulla costa orientale, dalla copertura sottile e dal ripieno compatto. A Shanghai sono chiamate “uova di colomba”, delicate e fresche, mentre a Pechino hanno ripieni di sesamo e burro, con un gusto molto speciale.

In molte cittadine, in occasione della festa delle lanterne, si possono ammirare straordinarie rappresentazioni culturali popolari, quali la danza con le lanterne a forma di drago, la danza del leone, la danza sui trampoli, la danza Yangee che, accompagnata da canti e tamburi, mima con movimenti lenti e veloci, i contadini che piantano il riso. La sera poi si assiste allo spettacolo dei fantastici fuochi d’artificio, di cui il popolo cinese è maestro. La notte della Festa delle lanterne è la prima notte di luna piena nel nuovo anno lunare: i fuochi d’artificio, le lanterne e la luna sembrano dar vita a una competizione per la creazione di una luminosità più particolare e splendente.



fonti:

Jenny Y.Su, Discendenti del Drago, Ed Grande Muraglia, Bologna 2010

http://it.omnidreams.net/articles/43277-festa-delle-lanterne-in-cina

http://italian.cri.cn/chinaabc/chapter18/chapter180105.htm