Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

mercoledì 4 gennaio 2012

Sándor Csoma de Körös, un grande sogno... distrutto da una zanzara.

Come ricordava suo cugino Joseph, Sándor aveva un animo inquieto «come una rondine, che quando arriva l’autunno, è spinta a migrare» ed aggiungeva «da ragazzi, non potevamo competere con lui nelle camminate, perché quando gli capitava di raggiungere la vetta di una collina, non era soddisfatto e voleva vedere cosa c’era oltre quella successiva e poi oltre quella ancora e spesso girovagava per vasti territori.»

Körösi Csoma Sándor, era nato in Ungheria il 4 Aprile 1784 in una famiglia appartenente ai cosidetti Szeklers, una casta semi-militare dei Magiari Ungheresi che si consideravano discendenti degli Unni di Attila e che per secoli avevano custodito le frontiere meridionali della Transilvania contro i Turchi non cristiani. Sándor era destinato a farsi carico della gestione del patrimonio familiare, ma fino da ragazzo cominciò a manifestare desiderio di viaggiare. Tuttavia, Sándor non era uno sconsiderato: nella sua famiglia c’era una tradizione di studio ed apprendimento - uno dei suoi zii era un distinto professore e suo cugino un pastore protestante – e Sándor sentì prima di tutto la necessità di dotarsi di una opportuna educazione. Studente coscienzioso e determinato, a 15 anni entrò al Bethlanianum, una famosa scuola protestante del tempo nella città di Nagyanyes, e dal 1807 partecipò ad un corso avanzato di tutoraggio in quella scuola. Folgorato dalle letture del professor Adam Herepei sulla storia ungherese e da un crescente senso di coscienza nazionale, Sándor ed altri due studenti fecero voto di scoprire, prima o poi, le origini del popolo ungherese che si credeva essere da qualche parte nelle lontane regioni dell’Asia orientale. Gli altri due dimenticarono presto il loro patto: Sándor resterà fedele a questo impegno per il resto della sua vita. «Si preparò deliberatamente per questa impresa – scriverà un suo biografo – con un impegno sistematico negli studi portato avanti per anni».

Ma Sándor aveva anche un’altra passione: le lingue. Già fluente in latino, greco, ebraico, tedesco, francese, rumeno e turco, vinse una borsa di studio alla università di Göttingen in Germania dove, oltre ad iniziare lo studio dell’ inglese, fu affascinato dall’antropologo J.D.Blumenbach e dal teologo e orientalista J.C.Eichhorn. Una considerazione di Eichhorn su «certi manoscritti arabi che debbono contenere informazioni molto importanti sulla storia medievale e sulle origini del popolo ungherese quando ancora era in Asia» stimolò Sándor ad iniziare anche lo studio dell’arabo. Immerso nella famosa biblioteca della università, trovò un testo del VII secolo dello storico greco Teofilatto Simocatta che sosteneva che nel 597 i turchi avevano sconfitto un popolo chiamato Ugars. Alcuni scrittori avevano fatto l’ipotesi che la somiglianza tra le parole Ugor, Ungri, Hungar, Hongrois, etc. indicasse la possibilità che queste tribù dimenticate potessero essere gli antenati degli odierni ungheresi. Altri storici avevano fatto provocatori riferimenti agli Unni e a popolazioni dell’Asia centrale noti come Ouars, Oigurs o Yugrasa, cioè gli odierni Uiguri, la minoranza etnica stanziata nella provincia più occidentale della Cina, lo Xinjiang. La ipotesi che gli Unni fossero chiamati anticamente Oigur indusse però Sándor a credere che gli antenati del popolo ungherese provenissero da qualche regione dell’Asia centrale e probabilmente fossero da identificare con gli Uiguri.

Fu così che, completato il suo apprendistato scolastico, si ritenne pronto per iniziare le sue ricerche. All’inizio di Febbraio del 1819 era tornato in Ungheria dove aveva confidato il suo piano al suo vecchio mentore, il professor Hegedüs. Avrebbe intrapreso il suo fantastico viaggio tutto da solo. «Se volessi partire per Londra, potrei farlo con sicurezza con un bastone da passeggio in mano e nessuno mi darebbe fastidio – lo aveva ammonito il suo professore – ma viaggiare nell’Asia centrale è un problema duro da risolvere per un singolo individuo».

Sordo agli avvertimenti di Hegedüs, Sándor andò a salutarlo il 20 Febbraio. «Il lungo tempo trascorso – ricordava in seguito il professore – non ha cancellato dalla mia memoria l’espressione di gioiosa serenità che emanava dai suoi occhi; sembrava come un raggio di luce che pervadeva la sua anima, vedendo che volgeva i suoi passi verso un obiettivo tanto a lungo desiderato». Al conte Teleky capitò di incontrarlo per strada subito dopo la sua partenza, vestito di un abito leggero di cotone giallo, con un bastone in mano ed un piccolo bagaglio; «Dove state andando, signor Körösi?» «Vado in Asia in cerca dei miei parenti» rispose Sándor . Ma il viaggio che stava per intraprendere lo avrebbe portato dove lui non avrebbe mai immaginato...

All’ inizio, la via verso l’Oriente fu molto tortuosa e non priva di difficoltà: dopo nove mesi trascorsi a studiare le lingue slave in Croazia, - ne avrebbe avuto bisogno, sosteneva, per consultare autori slavi sulla storia antica degli ungheresi - si diresse a Bucharest, dove pensava di perfezionare il suo turco e poi si trasferì a Costantinopoli. Di lì pensava di andare a Mosca, ma una epidemia di peste nel territorio di Odessa lo costrinse a cambiare i suoi programmi. Con l’obiettivo di migliorare le sue conoscenze della lingua araba, prese una nave per Alessandria d’Egitto, ma ancora una volta a fermarlo fu una epidemia di peste. La sua nave girovagò alcune settimane lungo il Mediterraneo alla ricerca di un porto non infestato dalla peste e finalmente sbarcò a Latakai in Siria: di là proseguì a piedi fino a Mosul, passando per Aleppo, dove acquistò abiti locali, e poi giù fino a Baghdad su una zattera lungo il fiume Tigri. Là si unì ad una carovana che andava a Theran, dove fece amicizia con il console inglese, il maggiore Henry Willock. Nella capitale persiana trascorse quattro mesi studiando la lingua locale.



Il 1°Marzo 1821 Sándor ripartì alla volta delle misteriose città della antica Via della Seta, che erano state raramente visitate da viaggiatori europei da quando la«pax mongolica» - che aveva garantito una certa sicurezza - era finita. Nel novembre di quell’anno raggiunse Bukhara, dove i russi catturati ai confini meridionali dell’ impero russo venivano ancora venduti come schiavi nella piazza del mercato. Dopo pochi giorni, passò per Balkh, la città ai tempi rasa al suolo dalle truppe di Gengis Khan e poi per Bamiyan, in Afghanistan, dove scoprì due immense statue di Buddha, alte più di 50 metri, scolpite sulla viva roccia di un dirupo (si, proprio quelle recentemente distrutte dai talebani... e sembra che Sándor sia stato proprio il primo europeo a vederle, checché ne dicesse l’esploratore inglese William Moorcroft che sosteneva di averle scoperte nel 1824, cioè ben due anni dopo il passaggio di Sándor ). Il 6 Gennaio 1822, Sándor arriva a Kabul: quello che appare strano è che nei suoi scritti non si preoccupa mai di chiarirci come lui, un europeo cristiano che viaggiava da solo, fosse riuscito ad attraversare indenne queste terre pericolose. Avrebbe potuto fare la sua fortuna e diventare famoso come esploratore e narratore di viaggi: tuttavia non si è preso la briga di prendere nota di questa parte dei suoi viaggi. Ma al nostro eroe interessava soltanto di raggiungere il bacino del Tarim, terra degli Uiguri, e casa putativa del popolo ungherese. Sándor lasciò Kabul tredici giorni dopo e verso la metà di Marzo giunse a Lahore, nell’odierno Pakistan.




Karakorum
Viaggiando attraverso Amristar e Srinagar, in Giugno diventò uno dei cinque o sei europei che avessero mai raggiunto Leh, la principale città del Ladakh. Rimaneva un ultima grande prova: raggiungere il bacino del Tarim, dove lui pensava di trovare tracce dei suoi antenati. La strada per Yarkhand (oggi Shache) che si trova al confine meridionale del bacino del Tarim fu, a suo dire, «molto difficoltosa, costosa e pericolosa per un cristiano». E questo era certamente un eufemismo, perché nessun europeo aveva mai tentato quel cammino che comportava l’attraversamento di ben cinque passi molto difficoltosi su sentieri pericolosi e traditori, incluso il massiccio del Karakorum con un passo ad oltre 4500 m di altezza e la catena dei monti Kun Lun.


Sándor non riuscì nell’impresa di arrivare nei luoghi tanto agognati: le difficoltà, i pericoli di quel viaggio estremo furono tali da indurlo ad abbandonare l’impresa ed a ritornare verso Srinagar.

Dopo questa disavventura, ci vollero altri vent’anni perché Sándor riprendesse le sue ricerche sulla origine del popolo ungherese. Vediamo perché...

Poco prima arrivare a Srinagar, nella città di Dras, Sándor incontrò colui che avrebbe completamente cambiato la sua vita: veterinario, sovrintendente della Compagnia delle Indie Orientali, un certo William Moorcroft (si, proprio quello che sosteneva di avere scoperto i Buddha di Bamiyan...) stava passando da quelle parti, apparentemente alla ricerca di depositi di foraggio per le stalle della Compagnia, ma in realtà raccogliendo informazioni di tipo commerciale e militare di interesse per i suoi datori di lavoro britannici. Moorcroft stava andando a Leh e Sándor, che non aveva nessun particolare obiettivo in quel momento, decise di cambiare nuovamente direzione e di accompagnare il veterinario-avventuriero.

Leh

Arrivati a Leh, Moorcroft venne in possesso di una lettera che un presunto agente russo ed incallito intrigante, tale Agha Mehdi, aveva portato a Ranjit Singh, il sovrano sikh del Punjab e del Kashmir. Il corriere che portava la missiva era morto sui monti del Karakorum «di improvvisa e violenta malattia» come ebbe a sostenere Moorcroft, e la lettera era «provvidenzialmente» caduta nelle sue mani. Scritta in russo e firmata dal conte Nesselrode di San Pietroburgo, la lettera aveva comprensibilmente destato la curiosità di Moorcroft, che sospettava qualche intrigo dei russi in quella che era considerata zona di influenza inglese. Il compagno di viaggio ungherese di Moorcroft, che aveva dedicato tanto tempo allo studio delle lingue slave, non ebbe difficoltà a tradurre la lettera in inglese; ne preparò anche una versione in latino, che fu spedita a Calcutta. Moorcroft pensava che il latino la avrebbe resa incomprensibile se per disavventura fosse caduta nelle mani degli agenti di Ranjit Singh. Rendendosi conto di essere in presenza di un prodigio linguistico, Moorcroft, pensò bene di utilizzare ancora i notevoli talenti di Sándor.

Gli inglesi in India erano a quel tempo molto interessati al Tibet: George Bogle , il primo inglese che era riuscito a penetrare in quella regione nel 1774, era stato ospite per cinque mesi del Panchen Lama nel monastero Tashilhumpo di Shigaste e nel 1783 Samuele Turner era stato uno dei primi europei a raggiungere Lhasa: queste visite avevano in qualche modo aperto le porte del Tibet, ma pochissimi passi avanti erano stati fatti successivamente per stabilire, relazioni commerciali, diplomatiche o culturali tra i due mondi. Il problema maggiore era la completa ignoranza della lingua tibetana, totalmente assente dagli sforzi degli inglesi di comprendere le lingue del sub-continente indiano. Il solo dizionario di tibetano in una lingua europea era un lavoro fatto dal missionario cappuccino Georgi, intitolato Alphabetum Tibetanum, che era stato pubblicato a Roma nel 1762. Incoraggiato e sponsorizzato da Moorcroft, Sándor ritornò a Srinagar e passò cinque lunghi mesi nella stagione invernale studiando questa lingua aiutato da un tibetano che parlava persiano, lingua che il nostro conosceva bene. Alla fine Sándor arrivò alla conclusione che il testo di Georgi era tristemente carente! Molto colpito dallo zelo che il suo amico transilvano aveva messo in questo compito, Moorcroft gli propose di redarre lui stesso un dizionario della lingua tibetana. E fu così che con gli incoraggiamenti del veterinario, commerciante di cavalli ed incallito vagabondo quale era Moorcroft, che fu avviata la carriera del primo grande tibetologo europeo.

Con i fondi della Società Asiatica del Bengala e con gli aiuti dello stesso Moorcroft, Sándor ritornò a Leh nel maggio del 1823 e di là si rinchiuse nel monastero di Yangla nella valle del fiume Zanskar, dove dedicò 16 mesi allo studio intenso del tibetano. Suo istruttore fu un lama di nome Bandé Sangs-rgyas-phun-tshogs che oltre ad essere l’autorità medica del Ladakh, aveva passato sei anni viaggiando in Nepal, Bhutan e Tibet, dove aveva visitato il monastero Tashilhumpo di Shigaste ed altri monasteri a Lhasa. «Durante la mia residenza a Zanskar – scriverà Sándor – ho imparato la grammatica del tibetano e conosciuto molti tesori letterari composti da 320 grandi volumi stampati, che sono alla base della religione e cultura tibetana». 
Monastero di Yangla


Sándor passò i successivi undici anni assorto negli studi tibetani. Nel 1825 il governo indiano mise il suo imprimatur sulle sue attività e gli garantì un modesto stipendio di 50 rupie: in cambio egli si impegnò a produrre un dizionario tibetano, una grammatica, e dei sommari sulla storia e la letteratura del Tibet. Ritornò a Zanskar nell’agosto del 1825 ma il lama che lo aveva precedentemente aiutato non era più interessato a collaborare: tuttavia riuscì a raccogliere una grande quantità di manoscritti tibetani che riuscì a riportare in India. Dal 1827 al 1830 si ritirò in un cottage nel villaggio di Kanum, dove si immerse nuovamente nello studio della lingua tibetana e dei testi buddisti. Ma Sándor, pur avendo raggiunto elevati livelli conoscenza della lingua e cultura tibetana, non era ancora soddisfatto: il suo prossimo obiettivo era quello di andare a Shigatse e a Lhasa, dove sperava di avere accesso alle biblioteche dei monasteri per trovare informazioni sugli antenati degli ungheresi ed iniziare lo studio della lingua mongola, che lui pensava di poter apprendere dai lama di quelle città. E proprio in Mongolia Sándor era convinto di trovare ciò che cercava.

Completato finalmente il suo lavoro a Kanum, nel 1830 Sándor tornò a Calcutta dove sperava di preparare per la pubblicazione il suo dizionario e la grammatica tibetana. Tuttavia fu per prima cosa impegnato a catalogare una grande quantità di manoscritti tibetani che lo studioso del buddhismo Brian Hodgson gli aveva inviato dal Nepal: questo lavoro lo impegnò per ben 18 mesi!

Si potrebbe pensare che Sándor, dopo aver completato il Dizionario e la Grammatica, sarebbe tornato in Tibet per riprendere le sue ricerche sulla origine degli ungheresi ed invece no: pensando di non essere sufficientemente preparato, in una lettera al segretario della Società Asiatica del Bengala scriveva «poiché non ho raggiunto ancora il mio obiettivo, per cui sono venuto in oriente, vi chiedo di concedermi il permesso del Governo di rimanere ancora tre anni in India allo scopo di migliorare la mia conoscenza del sanscrito e dei vari dialetti locali e ,se il Governo è d’accordo, di concedermi un passaporto in duplice copia, in inglese e in persiano, per potermi recare nelle regioni nord-occidentali dell’India.»

Ottenuto il permesso, Sándor si trasferì a Titalya nel Bengala, dove rimase dal marzo 1836 al novembre 1837. Il maggiore Lloyd, di stanza a Titalya, che era divenuto suo amico riferiva che «per tutto il tempo che rimase là, fu assorbito nello studio del sanscrito e della lingua del Bengala» aggiungendo che a lui «sembrava miseramente fuori di testa». Lloyd, che conosceva gli interessi di Sándor, lo spinse a proseguire per Lhasa passando per il Sikkim, ma lui era riluttante perché riteneva quel viaggio molto pericoloso.

Tornato a Calcutta nel 1838, continuò a lavorare nella biblioteca della Società Asiatica: ma non aveva dimenticato il Tibet. Rifiutò infatti due incarichi uno in Bhutan e uno in Nepal perché da quei luoghi non era possibile proseguire per il Tibet. All’inizio del 1842, a 57 anni di età, si rese conto che se voleva concludere qualcosa doveva muoversi: aveva qualche presentimento però che il viaggio nell’Asia centrale poteva essere l’ultimo per lui. Così lasciò Calcutta per dirigersi a Darjeeling ai piedi dell’Himalaya.

Sándor era felice per essere riuscito ad ottenere un permesso per entrare in Tibet dal Sikkim, ma ecco che il destino bussò alla sua porta: poco prima di partire venne assalito dalla febbre. Lungo la strada per Darjeeling si era fermato qualche giorno nella giungla del Terai, dove probabilmente aveva contratto la malaria: poco tempo dopo, la malattia che peggiorava di giorno in giorno, pose fine alla sua vita ed al suo sogno. Fu sepolto a Darjieeling, dove un considerevole monumento fu eretto sulla sua tomba.

Una delle cose più curiose lasciateci da Sándor - sempre che tutto il resto della sua vita vi sia sembrato banale – è un articolo di tre pagine, preparato per la Società Asiatica del Bengala intitolato Note on the Origins of the Kalachakra and Adi-Buddha Systems in cui riassumeva le informazioni che aveva raccolto su Shambhala mentre era a Yangla: pubblicato sul giornale della Società nel 1833, fu la prima volta che la leggenda di Shambhala venne portata a conoscenza del mondo occidentale. Scrive il nostro:

«Il peculiare sistema religioso chiamato Kalachakra [ che significa Ruota del Tempo, ed appartiene al sistema più elevato del buddhismo tantrico] si suppone derivato da Shambhala (in tibetano “dé-jung”, che significa “sorgente della felicità”) un regno favoloso nel Nord, la cui capitale era Kàlapa, una splendida città residenza di molti famosi re di Shambhala, situata tra il 45° e il 50° parallelo nord, tra Sita o Jaxartes,..».

Il Kalachakra era stato introdotto nell’India Centrale nella seconda metà del decimo secolo d.C. e successivamente, attraverso il Kashmir, era arrivato in Tibet, introdotto a Shambhala da un suo mitico sovrano, tal Suchandra. La dottrina del Kalachakra ed i suoi numerosi testi sarebbero stati conservati, praticati e tramandati senza interruzione dai re sacerdoti di Shambala per diverse successioni e l'intero regno, grazie alla realizzazione spirituale dei suoi sudditi, divenne sempre più etereo e si trasformò in una terra pura.

In seguito, un maestro tantrico indiano del X secolo un sant’uomo chiamato Tsilu ( detto anche Tilupa) riuscì, grazie ai suoi poteri mistici, a raggiungere Shambala dove apprese il Tantra di Kalachakra. Tilupa aveva portato poi gli insegnamenti Kalachakra a Nalanda, il grande centro buddhista di apprendimento dell’India Centrale. Arrivato a Nalanda, Tsilu aveva messo i simboli dei cosiddetti “dieci guardiani del mondo”, con sotto iscritti i sei principi del Kalachakra, sopra la porta di ingresso del tempio. Inizialmente uno dei più influenti pensatori di Nalanda, un certo Narotapa, aveva contestato Tilupa assieme ad altri 500 pandit del luogo ma alla fine tutti “si e erano prostrati ai suoi piedi” accettando il suo insegnamento. Purtroppo il Kalachakra scomparve poco dopo dall’India in seguito alle devastazioni operate dai musulmani. La tradizione venne però preservata in Tibet, giungendo così fino a noi.

Tilupa era stato piuttosto preciso riguardo alla localizzazione di Shambhala, posizionandola tra il 45° e il 50° parallelo nord; “Jaxartes” era poi il nome dato da un antico geografo greco al fiume ora noto col nome Syr Daria, che inizia alla confluenza dei fiumi Naryn e del Qoredaryo nella valle Ferghana (Uzbekistan) e che scorre verso nord-est attraverso il Kazakhstan per poi sfociare nel lago Aral. Includendo il Naryn, che inizia in Kyrgyzstan, l’intero fiume è lungo più di 3.000 km, il più lungo dell’Asia Centrale. Solo il corso inferiore del Syr Darya, sotto la città di Qaraghandy, si estende a nord del 45° parallelo. In quest’area il fiume scorre attraverso la periferia nord-orientale del deserto Qizilqum (Kyzylkum). A nord del Syr Darya – la regione tra il Sita o Jaxartes – il deserto si trasforma nella steppa del Kazakh; quindi il deserto di Qizilqum potrebbe essere quello che Csoma chiama “grande deserto” o “pianure di bianca sabbia” nella sua lettera del 1825 e che deve essere attraversato per raggiungere Shambhala. Secondo Sándor, la leggenda di Shambhala e dei suoi mitici re era basata su posti e popoli realmente esistenti ma che per qualche misteriosa ragione erano stati poi relegati nel regno del mito.
( vedi anche: I missionari gesuiti primi esploratori del Tibet ed il mito di Shambhala)


La tragedia di Sándor Csoma de Körös è che la ipotesi che lo ha spinto per tutta la vita a ricercare le origini del popolo ungherese negli Uighuri era sbagliata. L’ironia della sorte è che in seguito gli studiosi di Shambhala avrebbero identificato nell’antico regno Uighuro di Khocho, localizzato nella depressione di Turfan,nel bacino del Tarim, come uno dei più probabili luoghi dove fosse stanziata Shambhala.

Pare che nel 1933 sia stato avviato un progetto con l'obiettivo di ripristinare il vecchio palazzo reale di Zangla dove Csoma de Körös ha vissuto e compilato il suo dizionario tibetano-inglese. Chiunque può collaborare e offendo una piccola donazione può avere il suo nome scritto su un mattone incorporato nel nuovo monastero. Chissà se il lavoro è stato finito o se c’è ancora possibile aggiungere un mattone col nostro nome...


Fonti:


http://www.shambhala.mn/Files/csoma.html
http://en.wikipedia.org/wiki/S%C3%A1ndor_K%C5%91r%C3%B6si_Csoma

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