Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

sabato 3 dicembre 2011

I missionari gesuiti primi esploratori del Tibet e il mito di Shambhala

Shangri-La è il nome di un luogo immaginario di cui si parla nel romanzo Orizzonte perduto, scritto da James Hilton nel 1933. Il romanzo descrive un luogo racchiuso nell'estremità occidentale dell'Himalaya nel quale si vedevano meravigliosi paesaggi, e dove il tempo si era quasi fermato, in un ambiente di pace e tranquillità. Shangri-La era organizzato come una comunità perfetta, da cui erano bandite, non a norma di legge ma per convinzione comune, tutta una serie di umane debolezze (odio, invidia, avidità, insolenza, avarizia, ira, adulterio, adulazione e via discorrendo), facendone un eden materiale e spirituale in cui l'occupazione degli abitanti era quella di produrre cibo nella misura strettamente necessaria al sostentamento e trascorrere il resto della giornata nell'evoluzione della conoscenza interiore della scienza e nella produzione di opere d'arte.

Nella sua fiction Hilton prende comunque spunto da testimonianze realmente accadute, tra cui in particolare i racconti del portoghese missionario gesuita Antonio de Andrade e dei suoi confratelli Casella e Cabral, che parlano di un mitico luogo, chiamato da loro Shambhala [Shangri-La è il nome che Hilton ha usato] . Troviamo un riferimento a questo missionario, quando il protagonista del romanzo, Conway, trova nella biblioteca del monastero di Shangri-La una copia del libro di de Andrade Novo Descobrimento do gram Cathayo, ou Reinos de Tibet, pello Padre Antonio de Andrade da Companhia de Jesu, Portuguez, no anno de 1626, testo che, pubblicato a Lisbona, fu il primo documento redatto in una lingua europea, che parlasse della regione che noi chiamiamo ora Tibet.

E adesso - come avrete già capito - vi racconto la storia di Antonio de Andrade e dei suoi confratelli e di ciò che la loro avventura ha innescato, con conseguenze che tuttora durano!

Il primo europeo che aveva raggiunto l’India via mare era stato l’esploratore portoghese Vasco de Gama che era sbarcato a Calicut, nella costa sud-occidentale nel maggio del 1598. I missionari gesuiti che lo avevano seguito nella sua avventura ebbero notizia di cristiani che vivevano da qualche parte nel nord del sub-continente indiano, sulle montagne dell’ Himalaya o sull’altopiano tibetano: che fossero i discendenti delle comunità di nestoriani migrati in oriente secoli prima o addirittura seguaci del mitico Presbyter Johannes ( il Prete Gianni di Baudolino), naturalmente i missionari furono subito interessati a venire in contatto con questi supposti correligionari. Un gesuita portoghese, tal Antonio de Andrade decise di verificare queste dicerie.

(vedi: Un prete di nome adamo alla corte dei Tang )
(vedi anche: Baudolino, Marco Polo e il mitico regnodel Prete Gianni )

De Andrade era nato ad Oleiros, in Portogallo, nel 1580 e nel 1595 era entrato nella Compagnia di Gesù: quattro anni più tardi, a soli 19 anni, era stato mandato in India, dove nel giro di pochi anni divenne capo di tutte le missioni nei territori del Gran Mogul dell’Indostan.

Nella primavera del 1624, mentre era a Dehli, de Andrade venne a sapere che un grande gruppo di fedeli indù stava partendo per un pellegrinaggio verso un tempio arroccato sui monti della Himalaya. Pensò che accompagnare i pellegrini fosse un ottimo pretesto per visitare quella regione a quel momento inesplorata dagli europei. De Andrade ed un suo compagno gesuita, Manuel Marques, passandosi per indù, partirono con la carovana dei pellegrini nell’Aprile del 1624. Ma lungo la strada che portava alle sorgenti del fiume Gange, furono scoperti e denunciati come spie. Confessarono che erano in missione per raggiungere il Tibet: inizialmente le autorità avevano deciso di non farli proseguire, ma dopo aver constatato che erano degli eccentrici non pericolosi, li lasciarono proseguire, non prima però di avere ricevuto dei cospicui «doni» in cambio. All’inizio di Giugno la carovana arrivò a destinazione, al sacro tempio di Badrinath, a più di 3000 metri di altezza, uno dei posti di pellegrinaggio più venerati tra gli Indù.


il tempio di Badrinath
L’atteggiamento di de Andrade nei confronti dei pellegrini indù, dei quali peraltro utilizzava la compagnia ed il supporto era intollerante e decisamente poco cristiano. Nella sua prima relazione scriveva:

«Essi [i pellegrini indiani] salivano camminando l’un dopo l’altro (il sentiero non permetteva di andare in due) gridando continuamente grandi evviva al loro idolo con le parole Ye Badrynate ye ye […] Noi udivamo con grande dolore queste voci dell’inferno, e poiché non potevamo prenderci altra vendetta del maledetto idolo, gli scagliavamo con la medesima frequenza altrettante maledizioni [… Spesso] trovavamo delle pagode per lo più sontuosamente lavorate, illuminate con lampade e tutte di diversa forma, ma tutte abominevoli e ridicole. Addetti al loro servizio vi sono molti yoghi che dall’aspetto stesso mostrano di essere ministri del diavolo. [… Con uno di questi] avrei voluto fare ciò che due mesi prima il nostro re aveva fatto ad un altro yoghi [irriverente nei confronti del sovrano]. Il re diede ordine che gli fosse portato trascinato a terra pei capelli e, avutolo dinnanzi, gli disse che era il diavolo o una sua immagine viva […] Poi ordinò [vari castighi e frustate]. Altrettanto, io pensavo, si doveva fare allo yoghi cui accennai sopra.»

Questo era l’atteggiamento tracotante che questi uomini della controriforma avevano nei confronti della religione indù: lo stesso accadde quando presero contatto col buddhismo tibetano: incomprensione e qualche volta violenza segnano questa pagina dell’avventura iberica extraeuropea, come tante altre del resto. Al centro delle preoccupazioni dei missionari stava l’obiettivo di sradicare una fede che non riuscivano a capire. Senza adeguate conoscenze linguistiche, affidandosi alle intuizioni ed ai servigi d’interpreti improvvisati, i coraggiosi e ingenui sacerdoti restarono ciechi di fronte alle ricchezze spirituali che si dispiegavano innanzi a loro, un immenso edificio filosofico, simbolico, mistico, distillato in secoli e secoli di travaglio intellettuale e di ricerca interiore … e i primi europei a contemplarlo non seppero discernervi che riti barbarici, al più grossolane imitazioni del Cristianesimo.

il villaggio di Mana

Ma torniamo alla nostra storia: ovviamente Badrinath non era la meta di de Andrade. Giunto là, si spinse da solo a nord verso il villaggio di Mana, l’ultima tappa prima del Passo di Mana alto 5400 m, che consentiva l’accesso al Tibet. Qui incontrò dei mercanti della terra di Bhot (nome con cui gli indù chiamavano il Tibet) da cui ottenne indicazioni su come muoversi in quella sconosciuta regione. Tornato a Badrinath, de Andrade fu informato che il governatore locale,il Rajah di Srinagar, gli aveva formalmente proibito di proseguire. Ma lui decise di ignorare il divieto e con due guide locali e si avviò verso il passo, pur sapendo che la stagione non era propizia ed erano attese abbondanti nevicate. Al terzo giorno di viaggio, dei messaggeri raggiunsero il piccolo gruppo con brutte notizie: le autorità avevano arrestato la mogli ed i figli delle guide di Mana e minacciavano di ucciderli se non fosse tornato. Le guide ovviamente se ne tornarono al paese, ma de Andrade, con la cocciutaggine che avrebbe caratterizzato molti altri esploratori del Tibet, decise comunque di proseguire con i suoi due servitori.

Il passo di Mana
Ma presto arrivò il maltempo: la neve arrivò loro alla cintola, poi alle ascelle, e furono obbligati a bivaccare all’aperto. Tutti e tre manifestarono sintomi di congelamento, ma caparbiamente riuscirono a raggiungere il passo di Mana. «Era tutto bianco ed abbagliante per i nostri occhi accecati dal riverbero della neve – annotò de Andrade – e non trovavamo traccia del sentiero che avremmo dovuto seguire». L’immenso altopiano del Tibet si allargava tentatore davanti ai tre temerari, ma i due servi erano troppo deboli per proseguire e fu così che de Andrade ordinò loro di tornare al villaggio di Mana (circa sei giorni di marcia!) per cercare dei rinforzi per poter proseguire: lui sarebbe rimasto accampato al passo fino al loro ritorno. Ma i servitori, saggiamente, si rifiutarono di tornare indietro senza di lui. I tre sarebbero probabilmente morti assiderati se non avessero incontrato, dopo tre giorni di marcia, un tibetano che era stato inviato verificare la loro sorte: gli abitanti del villaggio di Mana temevano infatti di essere ritenuti responsabili di una eventuale disgrazia che fosse accaduta ai viaggiatori stranieri.

Così de Andrade si rassegnò ad attendere a Mana che il clima fosse più propizio: riuscì però a mandare oltre il passo - tramite dei nativi molto esperti dei luoghi - un messaggio al sovrano del Tibet. Pensando che fosse un mercante straniero, probabilmente in possesso di beni esotici, il re non solo invitò il gesuita a raggiungerlo, ma gli inviò anche due guide esperte per condurlo da lui oltre il famigerato passo. Non si sa molto di questo viaggio, ma sicuramente de Andrade fu il primo europeo a raggiungere il Tibet dall’India, mettendo finalmente piede nella città di Tsaparang, nell’Agosto del 1624.

Ciò che resta di Tsaparang
In un primo tempo, il re non fu entusiasta di scoprire che de Andrade non era un commerciante ma il rappresentante di una religione diversa dal buddhismo, ma dopo che il nostro gli ebbe raccontato che era venuto là alla ricerca di suoi correligionari che si credeva vivessero da qualche parte in Tibet e per conoscere inoltre la religione del luogo, si calmò. Essendo il re una persona profondamente religiosa, fu colpito dal fatto che de Andrade avesse rischiato la vita per la sua missione: autorizzò il gesuita a costruire un «casa di preghiera» cristiana a Tsaparang, e non lo lasciò ripartire fino a quando si impegnò a ritornare l’anno successivo. De Andrade quindi – con un passaporto ed una lettera di presentazione del re – se ne tornò al villaggio di Mana, per poi proseguire per il suo quartier generale ad Agra, dove arrivò nel Novembre 1624. Là portò a termine un rapporto sul suo viaggio, il già citato Novo Descobrimento do gram Cathayo .

Da commercianti cinesi arrivati a Tsaparang con the, porcellane ed altre mercanzie, de Andrade aveva imparato molte cose riguardo alla geografia dell’ immenso «tetto del mondo» a nord della Himalaya «il regno del Tibet - scriverà – comprende numerosi piccoli regni, incluso il reame di Guge, di cui Tsaparang è la capitale.» Si era fatto l’idea che questi vari regni, assieme al “grande impero di Sopo” [Mongolia] che confina da una parte con la Cina e dall’altra con la Moscovia [Siberia], fossero tutti parte della «Grande Tartaria», cioè il grande impero Mongolo fondato da Gengis Khan che all’apice del suo sviluppo controllava gran parte del Tibet e che dopo la caduta della dinastia Yuan in Cina nel 1368 e la frantumazione delle province occidentali, si fossero resi indipendenti.

De Andrade rispettò la promessa di tornare a Tsaparang: lasciò Agra nel Giugno del 1625 e - depredato nuovamente dei suoi beni dai rapaci funzionari delle giurisdizioni attraverso cui doveva passare - arrivò in Tibet a fine Agosto. Forse non avevano capito nulla del Buddhismo tibetano, ma molto più abili si mostrarono i missionari nel cogliere le tensioni del quadro politico locale: nel periodo dell’arrivo dei missionari a Tsaparang, erano in corso lotte di potere che opponevano il re al fratello, lama principale di Guge, ed altri congiunti appartenenti all’ordine monastico, così de Andrade riuscì ad impiantare la missione, con il favore del sovrano, desideroso di contrastare le ingerenze delle autorità religiose nella sua conduzione del regno.

Uno dei motivi per cui de Andrade era voluto entrare in Tibet era l’ipotesi che in quella regione ci fossero delle presenze cristiane: a Tsaparang, venne però a sapere che in nessuno dei regni tibetani si era mai avuto notizia di comunità cristiane. Forse l’origine di queste voci era dovuta all’apparente somiglianza di alcuni riti cristiani e tibetani e dalla errata traduzione di alcuni termini chiave della dottrina. Ad esempio i «Tre Tesori» del buddhismo (Buddha, Dharma e Sangha) potevano essere confusi con la Trinità (Padre, Figlio e Spirito Santo) cristiana. Ma la assenza di cristiani in Tibet non dissuase, come è ovvio, de Andrade dal fare proseliti: in accordo con la promessa del re –che gli aveva concesso la possibilità di costruire un casa di preghiera – nel giorno di Pasqua del 1626 venne posata la prima pietra della prima chiesa cristiana in Tibet.

La notizia della presenza a Tsaparang di un «Lama dell’Occidente» si diffuse rapidamente attraverso l’altopiano tibetano. L’anno successivo il re di Utsang invitò de Andrade a visitare la sua capitale, Shigatse, che distava un mese di viaggio da Tsaparang. De Andrade, che in quel periodo stava fondando un’altra missione in Himalaya a più di 300 km di distanza da Tsaparang, non fu in grado di onorare l’invito del re di Shigatse. Tuttavia egli aveva già informato i suoi superiori già da un anno che il regno di Utsang poteva essere terreno fertile di missione e che tuttavia un tentativo di raggiungere quella sconosciuta regione andava fatto partendo dal Bengala, nell’India Orientale.

Così il 26 Agosto 1626 i missionari gesuiti portoghesi Estêvão Cacella e João Cabral partirono da Hugli, una base gesuita che si trovava su un ramo del delta del Gange nel territorio dell’ odierno Bangladesh. Viaggiarono verso nord, oltrepassando la città di Dhaka e arrivarono alla città di Cooch Behar nel Bengala occidentale il 28 Ottobre. Trascorsero là l’inverno e nel febbraio 1627 ripresero il camino verso la città di Alipur Duar, una delle cosiddette «porte» di accesso alle pendici della Himalaya, ed attraversarono gli odierni confini del Bhutan vicino a Buxa Duar, divenendo così i primi europei ad entrare in questo isolato regno himalayano. Nella primavera del 1627 i due raggiunsero la città di Paro, e poi volsero verso Thimphu, la capitale del Bhutan, dove incontrarono il re presso il monastero di Changangkha [ancora oggi esistente]. Il re non aveva mai incontrato degli europei ed all’inizio le cose non andarono molto bene: gli interpreti indù dei missionari non parlavano la lingua locale e l’udienza sarebbe stata un completo fallimento se non ci fosse stata l’apparizione fortuita di un lama di Tsaparang, che parlava un poco l’indostano e il dialetto locale e quindi poté fare da interprete. Il re trovò la conversazione interessante e avrebbe voluto continuare a lungo: alla fine decise di assegnare ai missionari dei tutori che insegnassero loro la lingua locale in modo da poter parlare direttamente con loro. I gesuiti si fermarono là parecchi mesi.
Il monastero di Changangkha

Oltre che studiare la lingua (cosa che si rivelò un disastro per mancanza di insegnanti competenti) e le pratiche religiose dei bhutanesi, i due missionari fecero anche delle ricerche geografiche. Cacella scoprì che nessuno dei locali aveva mai sentito parlare di Cathai o Cina, ma aggiunse:

«esiste un paese, molto famoso da queste parti, che è chiamato Xembala che confina con un altro chiamato Sopo [Mongolia], sulla cui religione, però il re non è stato in grado di fornire informazioni».

Cacella nel frattempo era dubbioso sul possibile successo del lavoro missionario in Bhutan, chiese al re di poter andare col suo compagno Cabrel a visitare i gesuiti di Tsaparang: preoccupato dalla insinuazione che questi visitatori, che lui considerava propri ospiti, potessero trovare una accoglienza più favorevole in un regno rivale, il re promise loro di costruire un «casa di preghiera» simile a quella che il re di Guge aveva concesso a Tsaparang. Cacella a quel punto rinunciò ad andare a Tsaparang, ma decise invece di andare a Xembala, che lui pensava essere il Cathai. Bisogna ricordare che molti europei, a quel tempo, ancora credevano che il Cathai, il paese raggiunto dai mercanti attraverso la Via della Seta e la Cina, sulle cui coste orientali erano sbarcati i portoghesi nel 1514, fossero due paesi differenti. Ma il re vietò a Cacella di fare anche quel viaggio, che implicava di transitare per il regno di Utsang, già noto ai due gesuiti grazie alla loro corrispondenza con Tsaparang. Cacella allora si procurò di nascosto guide ed equipaggiamento e lasciò il Bhutan da solo, lasciando il suo compagno che fu catturato e tenuto in ostaggio dal re: non abbiamo notizie certe di quel viaggio, ma sappiamo che raggiunse Shigatse, la capitale dello Utsang, circa venti giorni dopo.


Shigatse
Qui riuscì a farsi ricevere dal re di Utsang, che gli diede il benvenuto e gli fornì un invito anche per il suo compagno Cabral. Il re del Bhutan si era molto adirato per la fuga di Cacella, ma alla fine si calmò e concesse a Cabral di lasciare il paese. Cabral raggiunse Cacella a Shigatse il 20 gennaio. Cacella rimase 23 anni a Shigatse, dove morì nel 1630. I lama avevano maturato un grande rispetto per lui, tanto da offrirgli di accompagnarlo in questo posto segreto, Shambhala.

In una lettera da Shigatse, Cabral fornisce, oltre la descrizione del re, dei lama e dei templi e dell’ambiente locale, alcune informazioni geografiche più ampie:

«Al nord, il regno di Utsang, confina col territorio dei Tartari, con cui il re è spesso in conflitto; la religione dei due paesi sembra essere la stessa. Verso est c’è la Cochinchina da cui arrivano molte merci, come del resto anche dalla Cina, che confina a nord-est. Xembala, a mio giudizio non è il Catayo, ma ciò che nelle nostre mappe designiamo come Grande Tartaria, il Catayo è più a nord.»

Questa lettera sembra essere la prima testimonianza dell’esistenza di Xembala, scritta in una lingua europea. Ecco come i tibetani lo descrivono:

Il regno di Shambhala ha la forma di un gigantesco fiore di loto ad otto petali: intorno al perimetro esterno del loto c’è una catena circolare di alte montagne innevate. Tra gli otto petali del loto ci sono otto catene montuose più basse lungo cui scorrono i fiumi di Shambhala.


Mappa di Shambhala
Ognuno degli otto petali che compongono la parte esterna di Shambhala contiene 120 milioni di villaggi: questi 960 milioni di villaggi sono raggruppati in reami da 10 milioni di villaggi ognuno ed ogni reame è retto da un starapo, per un totale di 96 satrapi. Gli abitanti di questi innumerevoli villaggi sono ricchi, felici e non soffrono di malattie . Tutti i prodotti per l’uso quotidiano sono prodotti spontaneamente e senza fatica. I satrapi sono persone molto religiose e ed insegnano i principi del Kalachakra ai loro sudditi: in queste terre infatti, non esiste il male e le parole «guerra» e «ostilità» sono sconosciute; la felicità e la gioia competono con quelle degli dei e la gran parte degli abitanti di Shambhala raggiunge la buddhità nella propria vita.


Kapala, la capitale
La zona centrale di Shambhala, è circondato da un ulteriore anello di colline, all'interno di cui c’è Kapala, la capitale, che misura dodici leghe in larghezza. Nella città si trovano dei magnifici palazzi decorati con metalli preziosi, oro, argento e gemme, smeraldi, turchesi, coralli, perle. Specchi sulle pareti dei palazzi creano giochi di luce, e lucernari di cristallo nei soffitti permettono alle persone di osservare la luna, i pianeti e tutte le stelle della sfera celeste.


Il palazzo del re
Il palazzo del Re è quadrato ed ha quattro porte: lungo i muri perimetrali su un bordo di corallo, danzano delle figure divine, in alto c’è uno striscione con la ruota del Dharma e due cervi, maschio e femmina su ogni lato. Ci sono inoltre tre anelli che circondano il palazzo, rendendolo particolarmente bello. Ha anche una modanatura dorata con appesi ornamenti di perle e diamanti. nella parte superiore delle pareti esterne sono appesi ciondoli d’argento e architravi sporgenti color turchese. Le sue finestre sono di lapislazzuli. Le porte e architravi sono di smeraldi e zaffiri. Ha tende d’oro, le stanze hanno soffitti di gioielli e di cristalli che producono calore, mentre i pavimenti sono di cristalli che producono freddo.

Il Re di Shambhala siede su un trono d’oro, indossa la veste del re universale del Dharma, ha un copricapo fatto dalla criniera di un leone, ornato con le immagini dei cinque Buddha trascendenti. indossa orecchini e bracciali d’oro Sia il suo corpo che i suoi ornamento emanano una luce bianca e rossa accecante. A circondare il re ci sono i suoi ministri, i generali, le guardie del corpo, gli elefanti con i loro guardiani ed i guerrieri. La sua prima concubina è la figlia di uno dei 96 satrapi di Shambhala, ma il Re ha molte altre concubine e molti figli e figlie.

A sud del palazzo reale c’è un boschetto di alberi di sandalo e nel mezzo del bosco c’è un enorme mandala tridimensionale Kalachakra, costruito dal primo re di Shambhala con oro,argento, corallo e perle.

Cabral tornò nel 1628 in India e tornò a Shigatse nel 1631, dove apprese che Cacella era morto l’anno precedente: alla fine però le autorità dei gesuiti decisero che la missione in Tibet era troppo costosa e pericolosa, considerando lo scarso successo della evangelizzazione, richiamarono sia Cabral che Andrade, chiudendo così la attività missionaria in quella regione.

Anche se Andrade non menziona mai Shambhala, né come posto fisico, né come posto mitico, il gesuita ha contribuito in qualche modo alla diffusione della leggenda. In primo luogo, ha aperto dall’India la via verso il Tibet ed il suo viaggio innescò quello degli altri due gesuiti Cabral e Casella, che invece riferirono di aver sentito parlare di un posto che probabilmente corrispondeva a Shambhala.

La descrizione del fantastico mondo di Shambhala è densa di iperboli tipiche della cultura buddhista, tuttavia non meraviglia che le notizie attorno a questo eden abbiano scatenato la curiosità di tante persone. A tutt’oggi però gli «shambhalisti» non sono riusciti a chiarire se Shambhala sia stato un vero grande reame o piuttosto una piccola oasi, una valle sperduta o addirittura un singolo monastero. È possibile infine che Shambhala non sia un posto fisico bensì un reame dello spirito. Nelle scritture buddhiste infatti abbondano del citazioni e la fede in una «terra pura» dove l’insegnamento del Buddha viene vissuto integralmente da monaci e laici.

Il successo del romanzo di Hilton ha dato origine al mito: così sognatori, avventurieri ed esploratori provarono a trovare questo paradiso perduto. L'onda orientalista dell'Occidente fu ispirata dal mito, e così il nome di Shangri-La è stato utilizzato non solo da gruppi musicali e teosofi, ma anche da molti luoghi di villeggiatura in Asia e perfino in America.


Zhongdian
Parecchie amministrazioni, mosse da interessi meno ideali, sostengono di essere la regione geografica descritta da Hilton e di essere così il mitico luogo ispiratore della misteriosa Shangri-La. Nel 2001 il governo cinese – mosso dal suo incrollabile pragmatismo - ha dichiarato Zhongdian, una cittadina arroccata nei monti della regione di Yunnan, al confine col Tibet, la vera Shangri-La, promuovendone in modo significativo lo sviluppo turistico. Nelle vicinanza c'è il monastero di Hong Po Si, dove vivono una sessantina di monaci e cinque lama.


Se ci andate, non dimenticate di soggiornare nell’ albergo Shangri-La: è proprio in centro ed ha camere spaziose e pulite per la modica somma di 200 yuan (circa 10€) al giorno ... ah, dimenticavo, c’è anche una ottima pizzeria gestita da Marco, un italiano, innamorato del luogo e di una bella cinesina!

fonti:

http://www.travelmundis.com/Alla%20ricerca%20dello%20Shangri-La.htm
http://www.ippolito-desideri.net/andrade.html
http://en.wikipedia.org/wiki/Est%C3%AAv%C3%A3o_Cacella
http://www.viaggiscoop.it/diari_di_viaggio/asia/cina/diario_di_viaggio_cina_5160.ashx

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