Nel XVII secolo il Vaticano prese la
decisione di avviare un’attività missionaria in Nepal ed in Tibet e per un
periodo di circa 70 anni mandò un grande numero di missionari in queste remote
regioni dell’Himalaya. Un decreto della Congregazione de Propaganda Fide,
emanato nel 1703 e riconfermato, malgrado l'opposizione dei gesuiti, nel 1732,
aveva affidato la missione ai cappuccini della provincia picena dell'Ordine.
Della cosiddetta “Disputa sui Riti” , la
controversia tra gesuiti e cappuccini sulla gestione delle missioni in Oriente,
ne parlo in: Ippolito
Desideri: il primo italiano sul “Tetto del Mondo”.( in realtà il primo
italiano a entrare nel Tibet era stato Odorico
da Pordenone nel 1330!). I Gesuiti avevano fatto vari tentativi infruttuosi nel
secolo precedente, a partire da quello del portoghese Antonio de Andrade, di
stabilire una sede in Tibet. De Andrade aveva inviato dei gesuiti aldilà
dell'Himalaya, credendo di avere avuto notizie di una comunità cristiana in
quelle zone, forse la mitica Shangri-La o i seguaci del leggendario Prete Gianni (vedi
anche: Baudolino,
Marco Polo e il mitico Prete Gianni). La missione di De Andrade ebbe la base a Tsaparang, nel
Guge, ma alla fine non fu riscontrato alcun segno significativo di una
precedente evangelizzazione. In compenso la missione cristiana chiese e ottenne
il permesso di predicare nel regno di Guge. Tale missione fu abbandonata
allorché il Guge fu invaso dalla popolazione del Ladakh. (vedi anche: I
missionari gesuiti primi esploratori del Tbet)
Fin dal 1707 un piccolo numero di cappuccini
aveva soggiornato a Lhasa, esercitando la professione medica e occupandosi
della piccola comunità di mercanti armeni, russi e cinesi cristiani, senza
svolgere, per mancanza di uomini e di mezzi, alcuna attività di proselitismo.
Nel 1735 uno dei cappuccini di Lhasa, il padre Orazio della Penna, tornò in Italia, per chiedere alla
Congregazione un numero sufficiente di missionari e un'adeguata copertura
finanziaria, ottenendo gli uni e l'altra; ripartì quindi nel 1738 con un primo
gruppo di missionari (otto cappuccini e un frate laico), il più giovane dei
quali era Cassiano.
Cassiano da Macerata (al secolo Giovanni
Beligatti) era nato a Macerata nel 1708, ed era entrato nel 1725 nell'Ordine
dei Cappuccini, presso il convento della sua città. Questi, partito a piedi da
Macerata il 17 agosto 1738 con due confratelli, aveva raggiunto Orazio della
Penna e gli altri membri della missione a Parigi il 22 novembre 1738. Colà
vennero acquistati un torchio a stampa (la stamperia di Propaganda aveva
fornito ai missionari un buon numero di caratteri tibetani), doni per il re del
Tibet e una serie di medicinali e strumenti chirurgici, al cui uso venne
particolarmente istruito Cassiano. L'11 marzo 1739 i missionari salparono da
Lorient, diretti alla colonia francese di Chandernagore nel Bengala. Scrive Cassiano:
«… I
missionari… si posero in cammino alla spicciolata per raccogliersi poi tutti al
porto di Lorient, che doveva essere il luogo d’imbarco… il viaggio attraverso
la Francia. Compiuto sempre a piedi, fu assai molesto e malagevole; i frati
patirono spesso la fame, e dovettero perlopiù adattarsi a dormire nelle stalle,
perché ben di rado i conventi li ospitavano, ma con mille pretesti li mandavano
altrove, ed essi erano sempre scherniti, insultati e fatti segno a mille
scherzi grossolani…»
Cassiano giunse nel Bengala il 26 settembre
1739, dopo un viaggio privo di incidenti. Di là i missionari risalirono il
Gange fino a Patna (26 dicembre 1739), sede delle ultime fattorie commerciali
europee sulla via del Nepal e di un ospizio cappuccino; proseguirono quindi per
il Nepal, dove giunsero nel febbraio del 1740. Dopo una lunga sosta (6
febbraio-25 maggio 1740) presso l'ospizio dei cappuccini di Bahagdaon (oggi
Bhaktapur), i missionari si trasferirono a Katmandu, dove attesero per alcuni
mesi allo studio delle lingue indostana e tibetana (8 giugno-4 ottobre 1740).
«…
Traversato il fiume Bagmati entrarono in Nepal, e valicata un’alta montagna
trovarono il fiume Kakokù, che dovettero passare a guado 9 volte, e viaggiando
in mezzo a foreste di pini e d’ippocastani, dopo essere passati per il castello
di Kuà giunsero il 6 febbario a Bahagdaon, capitale del regno del medesimo
nome, dove da qualche tempo i cappuccini avevano un ospizio. Furono bene
accolti dal re e trattati con somma famigliarità, e il Beligatti s’intrattiene
a parlare delle prove ricevute della benevolenza regale…»
Con un
seguito di 32 portatori attraversarono quindi l'Himálaya, pernottando nelle
locande appositamente collocate lungo l'arduo ma assai frequentato percorso, e
giunsero a Lhasa il 6 gennaio 1741.
L'accoglienza del sovrano (in realtà
governatore, essendo il paese sottoposto all'autorità cinese) fu benevola, e i
rapporti con il clero locale, inizialmente, ottimi. Cassiano poté così visitare
i conventi, esercitare la medicina, e svolgere con i suoi compagni opera di
evangelizzazione. Ma il potenziamento dell'attività dei missionari, malgrado
gli scarsi successi dei loro sforzi (diciannove conversioni in tutto), destò le
preoccupazioni dell'autorità di uno Stato nel quale la vita civile si
identificava con quella religiosa. I convertiti, che avevano rifiutato di
partecipare alle pubbliche preghiere buddiste, vennero condannati alla
fustigazione, e la libertà di culto e proselitismo concessa nel 1741 venne
abolita nel 1742.
«… Provvisti
dell’occorrente i missionari partirono, e dopo un lungo e dificile viaggio
arrivarono a Lhasa nel gennaio del 1741. Fu lor fatta buona accoglienza,
specialmente dal re, e, dopo aver appresa la lingua del paese, si dettero a
predicare, ma con frutti piuttosto scarsi. Ben presto poi i religiosi tibetani
cominciarono a veder di malocchio il favore che i missionari godevano presso il
re. Nacque fermento che andò man mano crescendo finché un bel giorno parecchie
centinaia, di preti buddhisti, raccoltisi dai vari conventi di Lhasa e dei
dintorni, invasero il palazzo reale, e rimproverarono al re il suo contegno.
Questi, atterrito, temendo di fare la fine dei suoi tre predecessori, uccisi
appunto per odio dei lama, dichiarò ipso facto i padri decaduti dalla sua
grazia; impose loro di non predicare nel Tibet se non ai mercanti venuti di
fuori…»
Nel tentativo di alleggerire la situazione il
padre Orazio della Penna, prefetto della missione, rimandò nel Nepal tre dei
suoi frati, fra i quali Cassiano (31 agosto 1742); tre anni dopo, tuttavia,
anche gli altri cappuccini dovettero lasciare definitivamente il paese, ponendo
fine per un secolo al tentativo di evangelizzare il Tibet. Cassiano continuò
l'attività missionaria nel Nepal e nel Bengala fino al 1756, quando una
malattia lo costrinse a tornare in patria. Si stabilì a Macerata, pur
soggiornando lungamente a Roma dove il prefetto di Propaganda Fide, cardinale
Spinelli, gli affidò l'istruzione dei giovani destinati alle missioni
dell'India e dove fu il principale collaboratore del padre A. Giorgi nella
stesura dell'Alphabetum Tibetanum Missionum
Apostolicarum commodo editum..., pubblicato a Roma nel 1762. Morì
nel convento di Macerata nel 1791. Diverse
altre sue opere, in parte ancora inedite, si conservano nella Biblioteca
comunale Mozzi Borgetti di Macerata.
Il considerevole numero di rapporti e di
lettere trasmessi dai missionari fornisce una preziosa fonte di informazione
sullo stato di quei paesi durante il XVIII secolo. In particolare, abbiamo
notizie della seconda missione nel Tibet del padre Orazio della Penna e dei
particolari di quel viaggio dal diario di Cassiano. (Giornale di fra' Cassiano da Macerata dalla
sua partenza da Macerata seguita gli 17 agosto 1738 fino al suo ritorno nel
1756, diviso in
due libri), conservato manoscritto presso la Biblioteca Comunale di
Macerata (5-3-C.18) e pubblicato parzialmente da A. Magnaghi (1902)e
interamente da L. Petech (1953). Perduta ne è purtroppo la seconda parte, nella
quale erano riferiti i motivi per i quali i cappuccini avevano dovuto lasciare
il Tibet, e che conteneva ampie descrizioni degli usi, costumi e religione del
Tibet e del Nepal. Di estremo interesse geografico e soprattutto etnografico è
tuttavia anche la prima parte, un manoscritto di circa 200
pagine con disegni fatti a penna, acquerelli e mappe di edifici, sia per
l'accurata e precisa descrizione dell'itinerario sia per i bei quadri degli usi
tibetani, particolarmente delle feste religiose.
Nel resoconto del suo viaggio dall’India
verso il Tibet, viaggio pieno di pericoli, poiché la giungla era
abitata da tigri, elefanti e rinoceronti, Cassiano il 29 di febbraio
scrive:
«…abbiamo anche visto in parecchi posti antiche rovine, alcune di
esse sembravano resti di edifici importanti. Non potevamo capire come, in foreste
così grandi e antiche, a giudicare dalla età degli alberi, potessero essere
stati costruiti edifici di qualche importanza. Negli anni successivi, durante
il mio soggiorno in Nepal, ho cercato di informarmi su queste rovine, di cui
avevo chiesto a Bavanidat durante il viaggio, ma non avevo capito le sue
risposte, dato che avevo difficoltà a comunicare con lui. Molti nepalesi di
Batgao, mi hanno assicurato che quelle rovine erano i resti dell’antica e
famosa città di Scimangada, [Simraongarh] che aveva dato origine ai loro regnanti: la città era circondata da un
complesso sistema di difese murarie molto alte, strutturate come un labirinto: per
entrare in quella città bisognava girarle attorno avanti e indietro, seguendo i
meandri di tale labirinto, e superare il controllo di quattro fortezze,
posizionate in punti strategici del percorso a distanza di due miglia l’una
dall’altra: il percorso per entrare in città era così lungo e complesso che ci
voleva un mese per arrivare al centro abitato. All’interno di tale fortificazione
c’erano campi coltivati e corsi d’acqua che potevano produrre cibo per la
numerosa popolazione che era governata da un grande Re il quale estendeva il
suo dominio su un vasto territorio, gestito dal suo Primo Ministro. Un giorno,
uno di questi ministri, che era caduto in disgrazia presso il Re, giurò di
vendicarsi e tramò per tradire il suo
paese e consegnarlo nelle mani dei musulmani. D’accordo con i nemici, fece
radunare le loro truppe all’entrata del labirinto; quindi, conoscendo la
struttura del labirinto, fece aprire un
varco nel muro di difesa ne punto dove
in muri si incrociano, dove nessuno si aspettava degli attacchi: fu così che i
musulmani poterono penetrare direttamente in città e massacrare gli abitanti. In
pochi riuscirono a fuggire, uscendo proprio dal varco aperto dai nemici: uno di
questi scampati era un figlio del Re, che fuggì in Nepal, dove cercò di
restaurare il regime del padre. Questo è quanto mi è stato più volte raccontato
sulla città di Scimangada, la cui mappa viene conservata, scolpita su pietra,
nel palazzo reale di Batgao e che io ho ricopiato qui… »
Il testo è accompagnato da una
illustrazione, intitolata “Pianta della città di Scimangada e delle sue mura”: “A”
rappresenta l’ingresso al labirinto, “B” la prima fortezza, “C” la seconda
fortezza, “D” la terza ed “E” la quarta”. “F” rappresenta la città di
Scimangada. “g-g” è il punto dove venne aperto il varco.
La presenza di
labirinti in Asia è rara in confronto con l’Europa, e si trova menzionata
principalmente nelle regioni occidentali e meridionali dell’India e dello Sri
Lanka. Quella di Cassiano è l’unica menzione dell’esistenza di un labirinto in
Nepal.
Il labirinto di Scimangada è progettato
secondo il modello classico, con la croce centrale ed otto file di mura. Consiste
in un singolo cammino, che si sviluppa circolarmente avanti ed indietro, per formare sette
circuiti circondati da otto muri, che avvolgono la meta centrale secondo il
seguente schema di costruzione:
Questo modello è detto impropriamente
“cretese”, con riferimento al leggendario labirinto di Cnosso, sull’isola di Creta: tale labirinto, secondo la mitologia greca
fu fatto costruire dal Re Minosse per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato
dall'unione della moglie del re, Pasifae, con un toro. In realtà è probabile
che Dedalo abbia costruito il palazzo reale di Cnosso: la complessità del
palazzo, un intrico di strade, stanze e gallerie, ha dato origine al mito del
labirinto.
Quando Androgeo, figlio di Minosse, morì ucciso da alcuni ateniesi
infuriati perché aveva vinto troppo ai loro giochi disonorandoli, Minosse
decise, per vendicarsi, che la città di Atene, sottomessa allora a Creta,
dovesse inviare ogni nove anni (o ogni anno) sette fanciulli e sette fanciulle
ateniesi da offrire in pasto al Minotauro, che si cibava di carne umana. Questo
avvenne finché Teseo, eroe figlio del re ateniese Egeo, si offrì come giovane
da offrire in pasto al Minotauro per ucciderlo. Quando Teseo arrivò a Creta,
Arianna, la figlia di Minosse e Pasifae, si innamorò di lui e lo volle aiutare
nella sua impresa. E proprio a Dedalo, si
rivolse Arianna, per sapere come aiutare Teseo a uccidere il Minotauro e uscire
dal Labirinto, e come sappiamo il consiglio del filo riuscì a far trionfare
Teseo nell'impresa.
Quando Minosse venne a sapere che ad aiutare sua figlia e
Teseo era stato Dedalo, non potendo prendersela con la figlia fuggita insieme
all'eroe, pensò di punire Dedalo, rinchiudendolo insieme al figlio, Icaro, nel Labirinto, che egli stesso
aveva progettato. L'unico modo per uscire dal Labirinto era evadere volando;
ingegnoso come era, Dedalo costruì due paia di ali, uno per sé e l'altro per il
figlio. Si raccomandò con Icaro di restargli sempre dietro durante il volo, di
non strafare e soprattutto di stare attento a non avvicinarsi troppo ai raggi
del Sole perché, le ali, attaccate alle spalle con della cera, potevano
staccarsi in quanto il calore avrebbe sciolto la cera. Come non detto, Icaro
durante il volo, provando piacere si allontanò dal padre e raggiunse i raggi
del Sole che sciolsero la cera e lo fecero precipitare nel mare, dove morì.
Dedalo triste e desolato, atterrò in Campania a Cuma, dove costruì un tempio al
dio Apollo, consegnando le ali che aveva inventato per evadere dal Labirinto di
Creta.
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