Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

sabato 21 febbraio 2015

Fra Cassiano da Macerata e il labirinto di Scimangada




Nel XVII secolo il Vaticano prese la decisione di avviare un’attività missionaria in Nepal ed in Tibet e per un periodo di circa 70 anni mandò un grande numero di missionari in queste remote regioni dell’Himalaya. Un decreto della Congregazione de Propaganda Fide, emanato nel 1703 e riconfermato, malgrado l'opposizione dei gesuiti, nel 1732, aveva affidato la missione ai cappuccini della provincia picena dell'Ordine.

Della cosiddetta “Disputa sui Riti” , la controversia tra gesuiti e cappuccini sulla gestione delle missioni in Oriente, ne parlo in: Ippolito Desideri: il primo italiano sul “Tetto del Mondo”.( in realtà il primo italiano a entrare nel Tibet era stato Odorico da Pordenone nel 1330!). I Gesuiti avevano fatto vari tentativi infruttuosi nel secolo precedente, a partire da quello del portoghese Antonio de Andrade, di stabilire una sede in Tibet. De Andrade aveva inviato dei gesuiti aldilà dell'Himalaya, credendo di avere avuto notizie di una comunità cristiana in quelle zone, forse la mitica Shangri-La  o i seguaci del leggendario Prete Gianni (vedi anche: Baudolino, Marco Polo e il mitico Prete Gianni). La missione  di De Andrade ebbe la base a Tsaparang, nel Guge, ma alla fine non fu riscontrato alcun segno significativo di una precedente evangelizzazione. In compenso la missione cristiana chiese e ottenne il permesso di predicare nel regno di Guge. Tale missione fu abbandonata allorché il Guge fu invaso dalla popolazione del Ladakh. (vedi anche: I missionari gesuiti primi esploratori del Tbet)

Fin dal 1707 un piccolo numero di cappuccini aveva soggiornato a Lhasa, esercitando la professione medica e occupandosi della piccola comunità di mercanti armeni, russi e cinesi cristiani, senza svolgere, per mancanza di uomini e di mezzi, alcuna attività di proselitismo. Nel 1735 uno dei cappuccini di Lhasa, il padre Orazio della Penna, tornò in Italia, per chiedere alla Congregazione un numero sufficiente di missionari e un'adeguata copertura finanziaria, ottenendo gli uni e l'altra; ripartì quindi nel 1738 con un primo gruppo di missionari (otto cappuccini e un frate laico), il più giovane dei quali era Cassiano.

Cassiano da Macerata (al secolo Giovanni Beligatti) era nato a Macerata nel 1708, ed era entrato nel 1725 nell'Ordine dei Cappuccini, presso il convento della sua città. Questi, partito a piedi da Macerata il 17 agosto 1738 con due confratelli, aveva raggiunto Orazio della Penna e gli altri membri della missione a Parigi il 22 novembre 1738. Colà vennero acquistati un torchio a stampa (la stamperia di Propaganda aveva fornito ai missionari un buon numero di caratteri tibetani), doni per il re del Tibet e una serie di medicinali e strumenti chirurgici, al cui uso venne particolarmente istruito Cassiano. L'11 marzo 1739 i missionari salparono da Lorient, diretti alla colonia francese di Chandernagore nel Bengala. Scrive Cassiano:

«… I missionari… si posero in cammino alla spicciolata per raccogliersi poi tutti al porto di Lorient, che doveva essere il luogo d’imbarco… il viaggio attraverso la Francia. Compiuto sempre a piedi, fu assai molesto e malagevole; i frati patirono spesso la fame, e dovettero perlopiù adattarsi a dormire nelle stalle, perché ben di rado i conventi li ospitavano, ma con mille pretesti li mandavano altrove, ed essi erano sempre scherniti, insultati e fatti segno a mille scherzi grossolani…»

 Cassiano giunse nel Bengala il 26 settembre 1739, dopo un viaggio privo di incidenti. Di là i missionari risalirono il Gange fino a Patna (26 dicembre 1739), sede delle ultime fattorie commerciali europee sulla via del Nepal e di un ospizio cappuccino; proseguirono quindi per il Nepal, dove giunsero nel febbraio del 1740. Dopo una lunga sosta (6 febbraio-25 maggio 1740) presso l'ospizio dei cappuccini di Bahagdaon (oggi Bhaktapur), i missionari si trasferirono a Katmandu, dove attesero per alcuni mesi allo studio delle lingue indostana e tibetana (8 giugno-4 ottobre 1740).



«… Traversato il fiume Bagmati entrarono in Nepal, e valicata un’alta montagna trovarono il fiume Kakokù, che dovettero passare a guado 9 volte, e viaggiando in mezzo a foreste di pini e d’ippocastani, dopo essere passati per il castello di Kuà giunsero il 6 febbario a Bahagdaon, capitale del regno del medesimo nome, dove da qualche tempo i cappuccini avevano un ospizio. Furono bene accolti dal re e trattati con somma famigliarità, e il Beligatti s’intrattiene a parlare delle prove ricevute della benevolenza regale…»

 Con un seguito di 32 portatori attraversarono quindi l'Himálaya, pernottando nelle locande appositamente collocate lungo l'arduo ma assai frequentato percorso, e giunsero a Lhasa il 6 gennaio 1741.

L'accoglienza del sovrano (in realtà governatore, essendo il paese sottoposto all'autorità cinese) fu benevola, e i rapporti con il clero locale, inizialmente, ottimi. Cassiano poté così visitare i conventi, esercitare la medicina, e svolgere con i suoi compagni opera di evangelizzazione. Ma il potenziamento dell'attività dei missionari, malgrado gli scarsi successi dei loro sforzi (diciannove conversioni in tutto), destò le preoccupazioni dell'autorità di uno Stato nel quale la vita civile si identificava con quella religiosa. I convertiti, che avevano rifiutato di partecipare alle pubbliche preghiere buddiste, vennero condannati alla fustigazione, e la libertà di culto e proselitismo concessa nel 1741 venne abolita nel 1742.

«… Provvisti dell’occorrente i missionari partirono, e dopo un lungo e dificile viaggio arrivarono a Lhasa nel gennaio del 1741. Fu lor fatta buona accoglienza, specialmente dal re, e, dopo aver appresa la lingua del paese, si dettero a predicare, ma con frutti piuttosto scarsi. Ben presto poi i religiosi tibetani cominciarono a veder di malocchio il favore che i missionari godevano presso il re. Nacque fermento che andò man mano crescendo finché un bel giorno parecchie centinaia, di preti buddhisti, raccoltisi dai vari conventi di Lhasa e dei dintorni, invasero il palazzo reale, e rimproverarono al re il suo contegno. Questi, atterrito, temendo di fare la fine dei suoi tre predecessori, uccisi appunto per odio dei lama, dichiarò ipso facto i padri decaduti dalla sua grazia; impose loro di non predicare nel Tibet se non ai mercanti venuti di fuori…»

Nel tentativo di alleggerire la situazione il padre Orazio della Penna, prefetto della missione, rimandò nel Nepal tre dei suoi frati, fra i quali Cassiano (31 agosto 1742); tre anni dopo, tuttavia, anche gli altri cappuccini dovettero lasciare definitivamente il paese, ponendo fine per un secolo al tentativo di evangelizzare il Tibet. Cassiano continuò l'attività missionaria nel Nepal e nel Bengala fino al 1756, quando una malattia lo costrinse a tornare in patria. Si stabilì a Macerata, pur soggiornando lungamente a Roma dove il prefetto di Propaganda Fide, cardinale Spinelli, gli affidò l'istruzione dei giovani destinati alle missioni dell'India e dove fu il principale collaboratore del padre A. Giorgi nella stesura dell'Alphabetum Tibetanum Missionum Apostolicarum commodo editum..., pubblicato a Roma nel 1762. Morì nel convento di Macerata nel 1791. Diverse altre sue opere, in parte ancora inedite, si conservano nella Biblioteca comunale Mozzi Borgetti di Macerata.



Il considerevole numero di rapporti e di lettere trasmessi dai missionari fornisce una preziosa fonte di informazione sullo stato di quei paesi durante il XVIII secolo. In particolare, abbiamo notizie della seconda missione nel Tibet del padre Orazio della Penna e dei particolari di quel viaggio dal diario di Cassiano. (Giornale di fra' Cassiano da Macerata dalla sua partenza da Macerata seguita gli 17 agosto 1738 fino al suo ritorno nel 1756, diviso in due libri), conservato manoscritto presso la Biblioteca Comunale di Macerata (5-3-C.18) e pubblicato parzialmente da A. Magnaghi (1902)e interamente da L. Petech (1953). Perduta ne è purtroppo la seconda parte, nella quale erano riferiti i motivi per i quali i cappuccini avevano dovuto lasciare il Tibet, e che conteneva ampie descrizioni degli usi, costumi e religione del Tibet e del Nepal. Di estremo interesse geografico e soprattutto etnografico è tuttavia anche la prima parte, un manoscritto di circa 200 pagine con disegni fatti a penna, acquerelli e mappe di edifici, sia per l'accurata e precisa descrizione dell'itinerario sia per i bei quadri degli usi tibetani, particolarmente delle feste religiose.

Nel resoconto del suo viaggio dall’India verso il Tibet, viaggio  pieno di pericoli, poiché la giungla era abitata da tigri, elefanti e rinoceronti, Cassiano il 29 di febbraio scrive:

«…abbiamo anche visto in parecchi posti antiche rovine, alcune di esse sembravano resti di edifici importanti. Non potevamo capire come, in foreste così grandi e antiche, a giudicare dalla età degli alberi, potessero essere stati costruiti edifici di qualche importanza. Negli anni successivi, durante il mio soggiorno in Nepal, ho cercato di informarmi su queste rovine, di cui avevo chiesto a Bavanidat durante il viaggio, ma non avevo capito le sue risposte, dato che avevo difficoltà a comunicare con lui. Molti nepalesi di Batgao, mi hanno assicurato che quelle rovine erano i resti dell’antica e famosa città di Scimangada, [Simraongarh] che aveva dato origine ai loro regnanti: la città era circondata da un complesso sistema di difese murarie molto alte, strutturate come un labirinto: per entrare in quella città bisognava girarle attorno avanti e indietro, seguendo i meandri di tale labirinto, e superare il controllo di quattro fortezze, posizionate in punti strategici del percorso a distanza di due miglia l’una dall’altra: il percorso per entrare in città era così lungo e complesso che ci voleva un mese per arrivare al centro abitato. All’interno di tale fortificazione c’erano campi coltivati e corsi d’acqua che potevano produrre cibo per la numerosa popolazione che era governata da un grande Re il quale estendeva il suo dominio su un vasto territorio, gestito dal suo Primo Ministro. Un giorno, uno di questi ministri, che era caduto in disgrazia presso il Re, giurò di vendicarsi  e tramò per tradire il suo paese e consegnarlo nelle mani dei musulmani. D’accordo con i nemici, fece radunare le loro truppe all’entrata del labirinto; quindi, conoscendo la struttura del labirinto,  fece aprire un varco nel muro  di difesa ne punto dove in muri si incrociano, dove nessuno si aspettava degli attacchi: fu così che i musulmani poterono penetrare direttamente in città e massacrare gli abitanti. In pochi riuscirono a fuggire, uscendo proprio dal varco aperto dai nemici: uno di questi scampati era un figlio del Re, che fuggì in Nepal, dove cercò di restaurare il regime del padre. Questo è quanto mi è stato più volte raccontato sulla città di Scimangada, la cui mappa viene conservata, scolpita su pietra, nel palazzo reale di Batgao e che io ho ricopiato qui… »



Il testo è accompagnato da una illustrazione, intitolata “Pianta della città di Scimangada e delle sue mura”: “A” rappresenta l’ingresso al labirinto, “B” la prima fortezza, “C” la seconda fortezza, “D” la terza ed “E” la quarta”. “F” rappresenta la città di Scimangada. “g-g” è il punto dove venne aperto il varco.

La presenza di labirinti in Asia è rara in confronto con l’Europa, e si trova menzionata principalmente nelle regioni occidentali e meridionali dell’India e dello Sri Lanka. Quella di Cassiano è l’unica menzione dell’esistenza di un labirinto in Nepal.

Il labirinto di Scimangada è progettato secondo il modello classico, con la croce centrale ed otto file di mura. Consiste in un singolo cammino, che si sviluppa circolarmente  avanti ed indietro, per formare sette circuiti circondati da otto muri, che avvolgono la meta centrale secondo il seguente schema di costruzione:


Questo modello è detto impropriamente “cretese”, con riferimento al leggendario labirinto di Cnosso, sull’isola di Creta: tale labirinto, secondo la mitologia greca fu fatto costruire dal Re Minosse per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato dall'unione della moglie del re, Pasifae, con un toro. In realtà è probabile che Dedalo abbia costruito il palazzo reale di Cnosso: la complessità del palazzo, un intrico di strade, stanze e gallerie, ha dato origine al mito del labirinto.
Quando Androgeo, figlio di Minosse, morì ucciso da alcuni ateniesi infuriati perché aveva vinto troppo ai loro giochi disonorandoli, Minosse decise, per vendicarsi, che la città di Atene, sottomessa allora a Creta, dovesse inviare ogni nove anni (o ogni anno) sette fanciulli e sette fanciulle ateniesi da offrire in pasto al Minotauro, che si cibava di carne umana. Questo avvenne finché Teseo, eroe figlio del re ateniese Egeo, si offrì come giovane da offrire in pasto al Minotauro per ucciderlo. Quando Teseo arrivò a Creta, Arianna, la figlia di Minosse e Pasifae, si innamorò di lui e lo volle aiutare nella sua impresa. E proprio a Dedalo, si rivolse Arianna, per sapere come aiutare Teseo a uccidere il Minotauro e uscire dal Labirinto, e come sappiamo il consiglio del filo riuscì a far trionfare Teseo nell'impresa.


 Quando Minosse venne a sapere che ad aiutare sua figlia e Teseo era stato Dedalo, non potendo prendersela con la figlia fuggita insieme all'eroe, pensò di punire Dedalo, rinchiudendolo insieme al figlio, Icaro, nel Labirinto, che egli stesso aveva progettato. L'unico modo per uscire dal Labirinto era evadere volando; ingegnoso come era, Dedalo costruì due paia di ali, uno per sé e l'altro per il figlio. Si raccomandò con Icaro di restargli sempre dietro durante il volo, di non strafare e soprattutto di stare attento a non avvicinarsi troppo ai raggi del Sole perché, le ali, attaccate alle spalle con della cera, potevano staccarsi in quanto il calore avrebbe sciolto la cera. Come non detto, Icaro durante il volo, provando piacere si allontanò dal padre e raggiunse i raggi del Sole che sciolsero la cera e lo fecero precipitare nel mare, dove morì. Dedalo triste e desolato, atterrò in Campania a Cuma, dove costruì un tempio al dio Apollo, consegnando le ali che aveva inventato per evadere dal Labirinto di Creta.



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