Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

mercoledì 7 settembre 2011

Leone Nani: il missionario fotografo che ha immortalato la vecchia Cina imperiale

Sono numerose le figure di missionari che, oltre all’opera di evangelizzazione e promozione umana, si sono dedicati allo studio e all’approfondimento del contesto socio-culturale dei paesi in cui hanno vissuto. E davvero speciale fu l’attenzione che padre Leone Nani dedicò alla Cina, dove fu inviato all’inizio del novecento, come missionario gesuita e dove si trattenne per oltre dieci anni.



Nel 1903, poco dopo la sua ordinazione sacerdotale, padre Leone aveva lasciato Albino, un paesello della bergamasca dove era nato nel1880: la destinazione era la città di Hanzhong, situata nel sud-ovest della provincia cinese interna dello Shaanxi, relativamente vicino a Xi’an l’antica capitale dell’impero dove è stata ritrovata la famosa “armata di terracotta” nella tomba dell’imperatore Qin Shi Huangdi.



vedi: Qin Shi Huangdi, primo imperatore della Cina...quello sì ha fatto le grandi opere!

Della vita di Nani prima della partenza per la Cina si sa ben poco: l’unità di Italia si era compiuta dieci anni prima della sua nascita con la conquista di Roma capitale. Ma in un ambiente laico, positivista e liberale quale si stava configurando la nuova Italia, la famiglia Nani manteneva un saldo aggancio con il mondo cattolico: figlio di un idraulico , Leone ebbe questo nome in onore al papa Leone XIII e ancora bambino fu mandato a studiare al seminario di Bergamo. Pare che per la sua indole un po’ ribelle fosse quasi espulso dal seminario e, dalla sua pagella scolastica, che avesse una forte inclinazione per le materie scientifiche. Tuttavia la sua vocazione per la missione era salda: entrò nel Pontificio seminario dei santi apostoli Pietro e Paolo a Roma (il futuro Pime) nel 1898, e a soli 23 anni partì per la Cina, dove rimase per dieci anni.



In quei tempi l’impero cinese si trovava in un periodo di transizione radicale: la crisi della dinastia mancese Qing, la politica di aggressione delle potenze occidentali, la rivolta dei Boxer e la caduta dell’impero nel 1911 con l’instaurazione della repubblica nell’anno successivo.

vedi: così è se vi pare, la strana storia di un imperatore che diventò comune cittadino

Il metodo missionario, all’epoca di Nani, imponeva ai sacerdoti un continuo peregrinare da una comunità all’altra, coprendo lunghe distanze a piedi o a dorso di mulo, percorrendo strade dissestate o sentieri di montagna: i periodi di assenza dalla propria residenza si protraevano ogni volta per settimane, quasi sempre senza i confort più basilari.

[Nella immagine a fianco, padre Leone consuma un pasto frugale offertogli in una “mensa” improvvisata all’aperto.]

Ma quel genere di vita aveva anche degli indubbi vantaggi: padre Leone aveva tutto il tempo di ammirare paesaggi che toglievano il fiato per la loro bellezza e di imprimere nella mente e nel cuore le centinaia di volti della gente che incontrava.



E padre Nani aveva anche un interesse: la fotografia. All’inizio del ‘900 per realizzare un’immagine fotografica erano necessarie approfondite conoscenze scientifiche e Nani era un esperto di chimica e meccanica, tutte doti necessarie per produrre le lastre e stampare da solo.



In un primo momento si era sviluppata una fotografia missionaria che aveva in carattere documentaristico che aveva anche l’intento di propagandare l’attività evangelizzatrice dei missionari. Ma padre Leone ha fotografato la Cina di cento anni fa con lo stile del reportage, quando il reportage fotografico non esisteva ancora.


Con due macchine a lastra documentò scene di vita quotidiana, arti e mestieri, notabili e contadini di una Cina che stava attraversando un’epoca cruciale: un “mondo perduto”, completamente trasformato – se non cancellato – dalla immensa serie di turbinosi eventi degli anni successivi: ritratti di donne di alto rango con i piedi fasciati, uomini con il tradizionale codino in uso nel periodo della dinastia Qing. Ma soprattutto la vita del tempo: artigiani che lavorano la carta o la seta, folle che assistono agli spettacoli teatrali, cerimonie.



Sin dall’inizio, mentre si impegna nello studio del cinese, il Nani si sforza di familiarizzare con quella terra e quella gente. Già un paio di anni dopo il suo arrivo, padre Leone mostra i segni evidenti dei suo processo di “sinizzazione”: in omaggio ai costumi locali ad esempio, porterà il codino mancese, la lunga veste bianca changpao ed il tipico berretto jijin usato dai sacerdoti cattolici durante le cerimonie liturgiche



Pochi scritti e diversi autoscatti sono ciò che resta della singolare personalità di padre Leone Nani, che in Cina documenta anche il proprio cambiamento esteriore, da giovane sacerdote in abito talare a missionario con barba e codino secondo gli usi mancesi del tempo. Ma successivamente, dopo il crollo del sistema imperiale, scriveva:

«La imberbe repubblica del “Fiore di Mezzo” non appena detronizzata la dinastia mancese di infelice memoria, ha dovuto sudar sangue per riconciliarsi un po’ di ordine ed assicurare una certa tranquillità alle masse popolari che sono piuttosto alquanto pessimiste circa l’avvenire del paese … di interesse particolare sono gli innocui movimenti popolari suscitati dalla guerra ai “codini” … poiché oggi giorno il cinese per diventare patriota della patria redenta deve liberarsi da quella ridicola appendice di servitù mancese, qual è la treccia…» Chissà se padre Nani si sia adeguato rapidamente alla nuova moda…



Chi lo ha scoperto è stato colpito dalla felicità compositiva delle sue immagini. Eppure Leone Nani non compare nei libri di storia della fotografia. Le sue opere, 640 lastre fotografiche sulla Cina di inizio secolo, sono custodite negli archivi milanesi del Pontificio istituto missioni estere (Pime).



Una cosa divertente nelle fotografie di Nani è il suo “sense of humor”: negli autoritratti, si mette in scena con grandissima serietà nelle situazioni più buffe, come se il suo lavoro fotografico altro non fosse che una giocosa burla, una gentile irriverenza per informare divertendo quanti avrebbero poi visto le sue foto.



Il missionario impegnato e devoto lascia il posto, in fotografia, a «Don Allegro», come si firmava nelle lettere ai parenti in Italia, al ragazzo pieno di vita, con gli occhi maliziosi nonostante l’espressione sempre impassibile. In una foto Nani fa capolino dalla soffitta della sua casupola con il tetto di paglia, abitata ai primi piani da mucche e galline. In un altro fotogramma inscena una sua caduta da cavallo.



Ci sono dei dettagli insoliti, nelle immagini di Nani che colpiscono per l’arguzia del regista: in un ritratto composto in modo tradizionale, due sposi si toccavano il piede, in un gesto insolito di intimità.

Un altro ritraeva un militare rigido e impettito, ma il colletto della giacca era fermato da una spilla da balia. A rendere interessante Nani è questo tocco di ironia, anzi di allegria, sempre presente nei suoi scatti, frutto di una straordinaria curiosità verso la realtà unita a una certa irriverenza.






Nel 1914, Nani rientra in Italia: non sono chiari i motivi del suo rientro: in Europa infuriava la grande guerra e padre Nani viene destinato all’opera di assistenza spirituale in un ospedale militare. Al termine del conflitto, torna come sacerdote diocesano nella bergamasca e nel 1922 gli viene assegnata la chiesetta della Santissima Trinità, situata a un paio di chilometri dal centro di Albino, oltre il fiume Serio. Prosegue in quella zona di campagna la sua opera pastorale, dedicandosi soprattutto ai ragazzi, con apprezzatissime attività di animazione, tra cui un artigianale cinematografo. Non rinuncia a pronunciare qualche parola in cinese e ama ancora cavalcare. Eppure, a parte alcune proiezioni delle immagini della Cina, sembra mettere completamente da parte la fotografia. Sicuramente padre Nani era appassionato di fotografia ma quello che era più importante per lui era fare il missionario: tutto il suo lavoro serve a mettersi in relazione con gli altri. Fa il fotografo finché serve al suo apostolato, smette quando non gli serve più. Ecco perché probabilmente, una volta tornato in Italia, ripone la macchina fotografica.





Sul retro di una foto che lo ritrae mentre lavora con un artigiano cinese un pezzo di legno, si legge: "Ma vedete un po’! Il missionario deve sapersi adattare a qualunque cosa, e in un certo senso a qualunque mestiere. Nella missione in cui mi trovo, non v’era falegname, e io voleva un tabernacolo per conservare il Santissimo e aggiustare altre cose. La final conclusione estraetela dalla presente. Berettino da turista, scarpe di corda, maniche legate collo spago, veste di seta, brache a strisce, sul banco d’un cavalletto, colla morsa di due mani cinesi… ecco, ecco la vera poesia che racchiude un mondo di cose.



Riferimenti bibliografici

Cina perduta nelle fotografie di Leone Nani, Skira Ed., Milano, 2003
http://www.vita.it/news/view/30855
www.comune.milano.it/dseserver/webcity/.../Biografia%20di%20Nani.doc
http://www.nikonclubitalia.com/news/leone-nani.htm
http://it.paperblog.com/cina-perduta-154349/

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