Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

martedì 14 giugno 2011

Il concetto di "persona" nella cultura orientale

Secondo l’uso corrente «persona» designa la realtà umana, il singolo individuo, nella sua interezza e concretezza: è tutto l’essere dell’uomo nella sua individualità che si vuol esprimere con questo nome. Come spiega lo stesso S. Tommaso il termine proviene da personare, che significa "far risonare", "proclamare ad alta voce":

"Sumptum est nomen personae a personando eo quod in tragoediis et comediis recitatores sibi ponebant quandam larvam ad repraesentandum illum, cuius gesta narrabant decantando”

(il nome persona è stato tratto da personare perché nelle tragedie e nelle commedie gli attori si mettevano una maschera per rappresentare colui del quale, cantando, narravano le gesta)

Storicamente la parola «persona» segna la linea di demarcazione tra la cultura pagana e la cultura cristiana. Fino all’avvento del cristianesimo non esisteva né in greco né in latino una parola per esprimere il concetto di persona, perché nella cultura classica tale concetto non esisteva: essa non riconosceva valore assoluto all’individuo in quanto tale, e faceva dipendere il suo valore essenzialmente dal ceto, dal censo, dalla razza.

La singolarità della persona, unica e irripetibile e, di conseguenza, la sostanziale eguaglianza in dignità e nobiltà di ogni esponente della specie umana, il suo valore assoluto, è una verità portata, affermata e diffusa dal cristianesimo, e fu una verità carica di un "potere sovversivo" come poche altre nella storia: man mano che essa riuscì a farsi strada e a penetrare nella cultura pagana, la trasformò profondamente, sostanzialmente, dando origine a una nuova cultura e a una nuova società: la cultura e la società che prenderanno forma nella respublica christiana del medioevo.

Nel cristianesimo il concetto di persona è diventato argomento di profonda meditazione filosofica e teologica. L’occasione di tale approfondimento la fornirono le dispute teologiche intorno ai grandi misteri della Trinità e della Incarnazione, alla cui soluzione contribuì in maniera decisiva la formulazione precisa del concetto di persona. Il primo esame approfondito di tale concetto fu compiuto da Agostino nel De Trinitate. L’obiettivo che egli persegue è quello di reperire un termine che si possa applicare distintamente al Padre, al Figlio e allo Spirito, senza incorrere da una parte nel pericolo di far di loro tre divinità e, dall’altra, nel pericolo di dissolvere la loro individualità. Agostino fa vedere che i termini "essenza e "sostanza" non possiedono questa duplice virtù, in quanto si riferiscono ad aspetti comuni a tutti e tre i membri della Trinità. Essa compete invece al termine greco “hypostasis” e al suo equivalente latino "persona", il quale non significa una specie, ma qualcosa di singolare e di individuale. Analogicamente, oltre che a Dio, questo termine si applica anche all’uomo: "Singulus quisque homo.. una persona est" (ibid. XV, q. 7, a. 11). Pertanto, per Agostino persona significa il singolo, l’individuo. Ciò attesta che nel secolo IV d. C. la parola persona aveva già acquisito un significato profondamente diverso da quello che aveva avuto nella latinità classica: non designa più una maschera ma un uomo, un individuo della specie umana.

Il merito di avere elaborato una definizione adeguata del concetto di persona spetta a Severino Boezio. In uno dei suoi opuscoli teologici egli scrive: “La persona è una sostanza individuale di natura ragionevole”. Dalla definizione boeziana risulta che persona non dice semplicemente individualità singola, né semplicemente natura, né semplicemente sostanza. Ma neppure l’unione di individualità, natura e sostanza fa ancora la persona; questi elementi appartengono anche a un sasso o a un gatto, che non sono persone. Per definire adeguatamente la persona occorre aggiungere ai tre elementi precedenti la differenza specifica che distingue gli uomini dagli animali, la quale consiste nella razionalità. Così si ottiene esattamente quanto ha scritto Boezio: rationalis naturae individua substantia.

Dopo questa doverosa introduzione al concetto di «persona» nel mondo occidentale, proviamo a vedere come questo concetto si è sviluppato nel mondo orientale. Lungi dal pensare che il pensiero orientale sia migliore del nostro, va tuttavia riconosciuto che nel pensiero cinese ed indiano è possibile riscontrare elementi che indicano possibilità umane non compiute dall’Occidente e che quindi possono fornire elementi di integrazione ed ampliamento del nostro modo di pensare.

Nell'induismo non esiste il concetto di Dio, cioè di un’entità personale, soprannaturale, onnipotente, sempre esistita, creatrice etc. Per l’induismo, al posto di Dio esiste una sorta di “energia” cosmica, impersonale, inconoscibile (Brahman), dalla quale si forma (per emanazione) tutto l’universo e gli uomini. Per questo non esiste, in questa concezione, il concetto di «persona», come noi lo intendiamo. Per l’induismo ognuno di noi è un’apparenza, solo un'emanazione dell’ «energia» primordiale … esistono numerosi dei, ma anche i più importanti e potenti sono emanazioni, per cui destinati a morire o meglio a fondersi nel primordiale Brahman, l'unica vera realtà. Il paradiso induista è quindi un tornare in questa «energia», non è un vivere da persona umana in una felice dimensione (come pensano le religioni monoteiste). Per l’induismo il paradiso è uno sciogliersi, come fa il fiume nel mare, in questa realtà impersonale, incosciente, sconosciuta, primordiale; non esiste quindi un rapporto vero di amore e gioia fra l'uomo e la divinità, e fra gli uomini...tutti i principi vitali, cioè gli atman (da non intendersi però come “anime”, dotate cioè di piena ed evidente autocoscienza e sentimento) confluiscono nel Brahman, perché erano di esso emanazione, da esso provenivano, esso erano.

Se guardiamo al buddhismo, vediamo che esso non si pone proprio il problema dell’esistenza di Dio: da alcuni studiosi è considerato - più che una religione - una filosofia di vita per raggiungere il Nirvana. Il Nirvana, però, non è una sorta di dimensione di estrema felicità, dove si vive con le persone care per sempre etc., ma anche qui è una dimensione dove l’entità umana viene annullata, una dimensione di estrema quiete, o meglio di azzeramento, di estinzione, dove non esiste più il dolore, ma anche dove non esiste più l'amore, la gioia, l'autocoscienza, i ricordi, la conoscenza ... in sostanza dove non esiste più l'essere umano. Il buddhismo puro insegna che sentirsi «persone» (dotate cioè di propria volontà, autocoscienza, individualità ecc.) è in realtà solamente un inganno, un inganno che conduce, insieme alle varie dimensioni umane, al desiderio....quindi alla sofferenza. Lo stesso amore, anche nei casi dove viene (anzi sembrerebbe venire) elevato o sottolineato come elemento d'estremo valore, in realtà è sempre strumentale, cioè solamente utile a raggiungere quella dimensione di estinzione dove non esiste l'individualità umana, né l'amore.

Ed ora passiamo alla Cina: Il posto occupato dalla filosofia nella civiltà cinese è paragonabile a quello tenuto dalla religione nelle altre civiltà: si è soliti dire che in Cina esistono tre religioni: confucianesimo, taoismo e buddhismo. E’ vero che in tutte e tre le direzioni si sono sviluppate degli indirizzi di carattere più propriamente religioso (in senso formale ed organizzato), tuttavia bisogna tenere presente che la civiltà cinese ha il suo fondamento spirituale nell’etica e non nella religione. I cinesi non si occuparono tanto di religione perché si dedicarono alla filosofia. Secondo la tradizione cinese, la funzione della filosofia non è di aumentare la conoscenza positiva ma di elevare lo spirito, cioè tensione verso quanto sta oltre il mondo presente e attuale.

Il tema centrale della speculazione cinese è il seguente: esistono uomini di vari tipi e condizioni (politici, artisti, scienziati) e per ciascuno esiste la più alta forma di sviluppo della quale il tipo è capace. Ma quale è la più alta forma di sviluppo di cui un uomo «come uomo» (cioè come persona) è capace? Secondo i filosofi cinesi è nientemeno che quella del «saggio» e l’ideale di un saggio è l’identificazione dell’individuo con l’universo.

Ma per raggiungere questo ideale si deve necessariamente abbandonare la società e persino negare la vita? Secondo alcuni filosofi ciò è necessario: il Buddha disse che la vita stessa è la radice e la sorgente della miseria della vita; alcuni taoisti sostennero che la vita è una escrescenza, un tumore, da cui solo la morte ci libera. Queste concezioni implicano l’idea dell’abbandono del mondo (filosofie dell’altro mondo). Le varie scuole del misticismo orientale, sebbene differiscano tra loro in molti punti particolari, sottolineano tutte l’unità fondamentale dell’universo che è la caratteristica principale del loro insegnamento: l’aspirazione più elevata dei loro seguaci – siano essi indù, buddhisti, o taoisti – è quella di diventare pienamente consapevoli dell’ unità e della interconnessione reciproca di tutte le cose, di trascendere la nozione di sé come individuo singolo e di identificarsi con la realtà ultima. Il raggiungimento di questa consapevolezza, - chiamata «illuminazione» non solo è un atto intellettuale ma una esperienza che coinvolge l’intera persona ed è fondamentalmente di natura religiosa.

Il confucianesimo, invece, è la giustificazione razionale e l’espressione teorica del sistema sociale cinese dell’epoca. Il confucianesimo, in quanto filosofia della organizzazione sociale e quindi della vita quotidiana, pone l’accento sulle responsabilità sociali dell’ uomo. La loro filosofia parla solo di valori morali e non vuole entrare nella sfera del meta-morale (filosofie di questo mondo).

Queste due correnti della filosofia cinese corrispondono più o meno al classicismo ed al romanticismo della tradizione occidentale. Il confucianesimo poiché si muove «entro i limiti della società» appare più di questo mondo del taoismo. Il taoismo, poiché si muove «al di là dei limiti della società» appare più ultramondano; negli aspetti religiosi e magici del taoismo si può infatti riscontrare la diretta influenza delle pratiche sciamaniche.

In realtà questa distinzione è solo strumentale: la filosofia cinese è di questo mondo ed insieme ultramondana. Le due correnti di pensiero, benché rivali, si completavano reciprocamente: è difficile, di fatto, fare una separazione netta tra loro: in ogni pensatore infatti, si realizza una certa compenetrazione dei due modi di vedere la realtà.

Una delle differenze più grandi tra oriente e occidente è la visione morale: la filosofia greca e la religione giudaico-cristiana sono stati i due capisaldi della tradizione occidentale: la prima ha operato inaugurando una logica disgiuntiva che ha separato il mondo del Cielo, sede d'ogni valore, da quello della Terra, dove la materia è causa d'ogni involuzione e impedimento; la seconda si è inserita con i propri dogmi creando un dualismo cosmico che ha contrapposto "la vita alla morte", lo "spirito alla carne", il " peccato alla redenzione". Il pensiero giudaico-cristiano è impostato sul concetto del «peccato» come distacco, separazione dal Bene. A partire dal peccato originale, tutto il senso del percorso umano è la lotta contro il Male, per l’affermazione finale del Bene.

Niente di tutto questo in Oriente: per il pensiero cinese, «bene» e «male» sono inseparabili componenti dell’esistenza (yin/yang): sarebbe quindi inconcepibile un’azione volta alla «eliminazione» di uno dei due principi. Il Santo per i cinesi non è tanto colui che lotta contro il male per il bene, quanto quello che «si astiene dagli eccessi», che vive nel «giusto mezzo», mantenendo un grande equilibrio tra le pulsioni. Un «eccesso di bene» è altrettanto dannoso di un «eccesso di male». Per Zhuang Zi, san Francesco è da evitare come  Al Capone!

«Uccidete i santi e liberate i banditi, il mondo intero ritroverà l’ordine:
morti i santi, i banditi non sorgono più».


Ma proviamo ad approfondire le idee chiave di confucianesimo e taoismo:

Nei Dialoghi per la prima volta nella storia cinese si fa sentire la voce di qualcuno che parla «in prima persona»: la parola di Confucio è, da subito incentrata sull'uomo e sua realizzazione. Tre cose risultano essenziali nel suo insegnamento: L'apprendimento, il senso di umanità e lo spirito rituale. Per lui innanzitutto c'è l'apprendimento (xue) e il ruolo centrale che Confucio vi attribuisce corrisponde alla sua intima convinzione che la natura umana sia perfettibile. Per la prima volta in una cultura aristocratica fortemente strutturata in caste e in clan si ha una integrale considerazione dell'individuo: tale atteggiamento rappresenta una sostanziale scommessa sull'uomo ispirata ad un sostanziale ottimismo. L'apprendimento, dunque, non come un procedimento intellettuale ma come esperienza di vita: l'apprendimento è una esperienza che si pratica, che si condivide con altri, che è fonte di gioia, che trova in se stessa al propria giustificazione. L'apprendimento deve condurre non tanto alla acquisizione di contenuti intellettuali «sapere cosa», quanto allo sviluppo di nuove attitudini di carattere concreto e pratico, cioè «sapere come» (oggi diremmo «know-how»)

La finalità pratica della educazione consiste nella formazione di un uomo capace di servire la comunità sul piano politico e di diventare un «uomo di valore» sul piano morale: la responsabilità dunque dei membri della élite colta è precisamente quella di governare gli altri per il loro maggior bene. In tal modo si delinea da subito il destino «politico» dell'uomo colto che, invece di tenersi in disparte per meglio assolvere ad un ruolo di coscienza critica, avverte invece la responsabilità di impegnarsi nel processo volto ad armonizzare la società.

Per Confucio l'uomo ha una sacra missione: quella di affermare e di elevare sempre più la propria umanità. Questa missione primeggia su tutti gli altri sacri doveri, compresi quelli che si riferiscono alle potenze divine o dell'aldilà.

Poiché la famiglia è percepita come una estensione dell'individuo, lo stato come una estensione della famiglia, e poiché il principe è rispetto ai suoi sudditi ciò che un padre è rispetto ai suoi figli, non vi è soluzione di continuità tra etica e politica.

Mentre Confucio si è sempre rifiutato di affrontare il tema metafisico (un po’ come Buddha) I taoisti erano convinti che esistesse una realtà ultima, soggiacente alla molteplicità delle cose e degli eventi che osserviamo: anche se ineffabile, essi chiamarono questa realtà Dao, che significa Via. Il Dao è la via, il procedere dell’universo, l’ordine della natura. Nel suo originario significato cosmico, il Dao è la realtà ultima, indefinibile, un processo dinamico in cui tutte le cose sono immerse, che produce il flusso ininterrotto dei mutamenti delle cose.

Ma il concetto di Entità Suprema nel taoismo non si identifica con un'entità «personale», un Dio giudice, padre, padrone, che osserva il mondo dall'alto e gestisce le sorti degli uomini. Al contrario l'entità suprema taoista è «energia» pura, che pervade l'intero universo (in questo troviamo qualche analogia con l’induismo). Il «Dio» del Taoismo è il Dao, la natura stessa di cui l'uomo fa parte, il ciclo perpetuo che provoca il mutare e il divenire di tutte le cose. Secondo la tipica circolarità del pensiero orientale, tutto ciò che “esiste” (l’universo) ha origine da ciò che “non-esiste”: il “manifesto” presuppone e trova origine nel “non-manifesto” . La forma è generata dal senza forma, così come la forma porterà al senza forma. Questa “esistenza prima dell’esistenza”, questa potenzialità non ancora espressa, è indicata col termine Dao. Dao è l’inesprimibile, l’inspiegabile, è il “caos” originario, l’unità indifferenziata ma feconda, dal cui ventre nasce la vita.

Quali sono gli schemi della Via cosmica che l’uomo deve riconoscere? La principale caratteristica del Dao è la natura ciclica del suo movimento: l’idea è che nella natura tutti gli sviluppi, sia quelli del mondo fisico sia quelli delle situazioni umane, presentano configurazioni cicliche di andata e ritorno di espansione e contrazione.

Il ritorno è il movimento del Dao
La debolezza è l’efficacia del Dao
I diecimila esseri sotto il Cielo nascono dal «c’è»
E il «c’è» nasce dal «non-c’è»
(Lao Zi,40)


Questa idea fu certamente desunta dalla secolare esperienza della vita contadina, l’alternarsi del giorno e della notte, l’alternarsi delle stagioni, l’alternarsi dei cicli produttivi, ma in seguito fu assunta come regola di vita. I cinesi credono che ogni volta che una situazione si sviluppa fino alle estreme conseguenze essa sia costretta a trasformarsi nel suo opposto; «gli esseri, giunti al culmine, non possono che fare ritorno». Secondo la legge ciclica del Dao, tutto ciò che è forte, duro, superiore, è stato all’inizio debole, molle, inferiore ed è destinato a ridiventarlo.

Il procedimento di comprensione del Dao è a ritroso, «controcorrente» rispetto ad ogni procedura consueta:

Praticare lo studio è sempre più accrescersi
Praticare il dao è sempre più decrescere
Decrescere al di là del decrescere, fino ad attingere al non-agire
Non agendo, non v’è nulla che non si faccia.
(Lao Zi,48)


E’ qui l’esplicita opposizione alla via confuciana, fondata sull’apprendere che è cammini in avanti. Per il Lao Zi praticare il Dao è procedere su un cammino senza cammino per imparare a disimparare.

E’ impossibile parlare del mare ad una rana che abita in un pozzo;
Vive in uno spazio troppo limitato.
E’ impossibile parlare del ghiaccio all’insetto che vive solo d’estate;
Vive in un tempo troppo limitato.
E’ impossibile parlare del Dao ad un letterato;
è limitato dalla ristrettezza dell’insegnamento ricevuto.
(Zhuang Zi , XVII)


Secondo questa legge, non esiste crescita infinita, non esiste sviluppo illimitato, ogni cosa prima o poi ritorna da dove era venuta. In virtù di questa logica naturale, per cui ogni cosa che sale dovrà necessariamente ridiscendere, il fatto di rafforzare un nemico può al limite servire ad affrettane la caduta.

Ciò che si deve chiudere, bisogna prima aprirlo
Prima consolidare ciò che è da indebolire
Prima favorire ciò che è da distruggere
Prima dare ciò che è da prendere
Questa si chiama «visione sottile»
Il molle vince il duro, il debole vince il forte.
(Lao Zi,36)


Questa «visione sottile» è alla base della «tolleranza» taoista, che non ha niente a che vedere con l’amore cristiano né con la compassione buddhista.

Coloro che accumulano sempre più denaro per aumentare la loro ricchezza finiranno con l’essere poveri. La moderna società industriale che cerca continuamente di alzare il livello di vita e così facendo abbassa la qualità della vita per tutti i suoi membri è un esempio eloquente di questa antica saggezza cinese.

Se il Santo del Lao Zi fa il contrario di ciò che si fa abitualmente, non è per calcolo né per desiderio di distinguersi: non è allo scopo di diventare il più forte che si fa umile, ma semplicemente perché la legge naturale di tutte le cose è di andare dal basso in alto e quindi tornare alla fonte. Invece di affaticarsi a nuotare contro corrente, il Lao Zi propone di rientrare nella corrente, di lasciarsi trasportare dall’onda.

Di fatto, ogni volta che la mia azione è volontaria, ogni volta che cerca di «imporre il mio io» andando controcorrente rispetto al corso naturale delle cose, essa dipende dall’Uomo o da ciò che i taoisti chiamano wei (l’agire che forza la natura). Quando l’azione va nel senso delle cose, quando si lascia portare dalla corrente, come il nuotatore che segue il dao dell’acqua senza cercare di imporvi il suo io, essa dipende da ciò che è naturale (ossia dal Cielo o dal Dao) ed è quello che i taoisti chiamano 无为 wu wei (letteralmente il «non-agire», ma meglio «l’agire che aderisce alla natura»). Tutto ciò che nell’uomo è volizione, costruzione, istituzione di distinzioni, non rappresenta che la parte periferica del suo essere: soltanto quando la lascia cadere, l’uomo ritrova il suo proprio centro. Per esemplificare il paradosso il Lao Zi fa ricorso alla metafora dell’acqua.

L’uomo del bene supremo è come l’acqua: l’acqua, benefica a tutti, di nulla è rivale.
Essa ha dimora nei bassifondi, da tutti disdegnati, ed alla Via è assai vicina.
Niente al mondo è più cedevole e più debole dell’acqua
Ma per intaccare ciò che è duro e forte, niente la supera
Niente potrebbe prenderne il posto
Che la debolezza vince la forza
E la mollezza vince la durezza
Non vi è nessuno sotto il Cielo a non saperlo
Benché nessuno lo sappia mettere in pratica.
(Lao Zi,78)

Quindi il «non-agire» non consiste nel «non far nulla» nel senso di incrociare passivamente le braccia, ma nell’astenersi da ogni azione aggressiva, diretta, intenzionale, interventista, al fine di lasciare agire l’efficacia assoluta, la potenza invisibile (de) del Dao. Il Santo è colui che «aiuta i diecimila esseri a vivere secondo la loro natura, guardandosi dall’intervenire»
Per questo, il Santo:


Non si esibisce, e perciò risplende
Non si afferma, e perciò di manifesta
Non si vanta, e perciò riesce
Non si gloria, e perciò diventa il capo
Infatti, appunto perché non lotta,
non c’è nessuno nell’impero che possa lottare contro di lui.
(Lao Zi, 22)


Mentre i confuciani esortano l’uomo ad esaltare la propria umanità, Zhuang Zi lo esorta invece a fonderla con il Dao. Il tema centrale del non-agire conduce così a quello del ritorno alla natura originaria, ritorno all’Origine, al Dao.

L’uomo vero 真人(zhenren), il Santo, è secondo Zhuang Zi, esente da qualunque preoccupazione morale, politica, o sociale, da qualsiasi inquietudine metafisica, da qualsiasi ricerca di efficienza, da qualsiasi conflitto interno o esterno, egli ha lo spirito libero e vive in perfetta unità con se stesso e con ogni cosa. La potenza del Santo è descritta più volte come invincibile, inalterabile, perché è la potenza stessa ,o «virtù» (de) del Dao.

L’utopia taoista spinge, sul piano collettivo, a tornare ad uno stato originario, anteriore alla formazione della società organizzata, esente da ogni forma di aggressione o di costrizione della società sugli individui; un mondo in cui l’assenza di morale, di leggi, di punizioni non indice gli individui ad essere a loro volta aggressivi, e in cui non vi è dunque guerra o conflitto, né spirito di competizione o volontà di dominio.

I taoisti non negano il rapporto dell’uomo con il mondo. Il Santo è colui che semplicemente riesce ad intrattenere tale rapporto senza lasciarsi «reificare dalle cose»: per Zhuang Zi si tratta di liberarsi, di svuotarsi del mondo, ma non per negarlo in nome della sua impermanenza, che è tematica squisitamente buddista. Fondendosi con il Dao, l’uomo ritrova invece il suo centro e non è più ferito da ciò che lo spirito umano considera abitualmente come sofferenza; declino, malattia, morte.


Bisogna accettare le cose, anche se sono senza valore.
Bisogna tenere conto del popolo, per vile che sia.
Bisogna eseguire il proprio compito, anche se non si è sorvegliati.
Bisogna formulare le leggi, nonostante la loro imprecisione.
Bisogna compiere i propri doveri anche se non hanno in sé nessuna attrattiva.
Amare e dispensare il proprio amore, ecco la bontà.
Vivere secondo le prescrizioni senza esserne prigionieri.
Dosare la giusta misura secondo il punto di vista elevato, ecco la virtù.
L’unità che si adatta incessantemente alle mutevoli variazioni,
ecco il Dao.


PS: se qualcuno ha avuto il dubbio, leggendo, che io propenda in maniera faziosa per il pensiero taoista … ebbene ha avuto una giusta intuizione!

2 commenti:

  1. In riferimento al suddetto articolo, sei naturalmente libero di propendere in maniera faziosa per il pensiero taoista, ma ciò non escluderebbe di informarsi correttamente prima di scrivere informazioni parziali ed erronee come quelle espresse in merito all'induismo. Non è affatto vero infatti che non esiste il concetto di Dio come entità personale, la visione del Brahman impersonale è solo una visione parziale della tradizione vedica, quella dell'Advaita Vedanta. C'è anche il Dvaita Vedanta, la scuola personalista secondo cui Dio è la Persona Suprema.
    Cordiali saluti

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    1. ti ringrazio per la precisazione: in effetti la mia conoscenza dell'induismo è superficiale e probabilmente mi sono affidato a stereoptipi comuni. Sarà mia cura approfondire! grazie anche per il commento: pochissime persone interagiscono dopo avere letto il post. cordiali saluti

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