Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

domenica 24 giugno 2012

"Il Buddha viene da Occidente", dicono i cinesi...ma se guardiamo bene, è vero anche per noi!

L’avventura del buddhismo ha inizio in India con Gautama Siddharta, membro della nobile famiglia dei Sakya, nato a Lumbini intorno al 563 a.C. Non è certamente un caso che Gautama sia un contemporaneo di Confucio: secondo il filosofo tedesco Karl Jaspers vi è stato infatti un periodo nella storia dell'umanità - unico nel suo genere - cui ha dato il nome di «Periodo Assiale» situato  tra l’800 e il 200 a.C., che presenta il suo culmine attorno al 500 a.C.

«In questo periodo - scrive Jaspers - si concentrano i fatti più straordinari. In Cina vissero Confucio e Lao Zi, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mozi, Zhuang Zi, e innumerevoli altri. In India apparvero le Upanishad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibilità filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nichilismo. In Iran Zarathustra propagò l'eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da Elia a Isaia e Geremia. La Grecia vide Omero, i filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidite e Archimede. Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi contemporaneamente in Cina, in India e nell'Occidente, senza che alcuna di queste regioni sapesse delle altre. La novità di quest'epoca è che in tutti e tre i mondi l'uomo prende coscienza dell'Essere nella sua interezza, di sé stesso e dei suoi limiti. Viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria impotenza, pone domande radicali».

In altri termini, nel Periodo Assiale, sembra che l'umanità abbia fatto un incredibile salto nell'approfondimento della conoscenza di sé e si sia operata una trasformazione globale dell'essere umano a cui, sempre secondo Jaspers, si può dare il nome di «spiritualizzazione». Vennero infatti formulate le categorie fondamentali secondo cui pensiamo ancor oggi
e poste le basi delle religioni universali, di cui vivono tuttora gli  uomini.

Ma torniamo a Buddha: non mi soffermo sulla sua storia leggendaria, che è ben nota a molti (chi non ha visto Il piccolo Buddha di Bertolucci?), quanto sulla evoluzione che il buddhismo ha subito nel tempo e nello spazio. Dopo essere rimasto confinato nella valle del Gange per due secoli dopo la morte del Buddha, il suo insegnamento comincia, verso la metà del III° secolo a.C. a spandersi in tutte le direzioni, ma in particolare “verso Oriente”: questa è una  caratteristica originale, che come vedremo, si è mantenuta per secoli, e oggi merita di essere analizzata.

Per chiarezza riguardo ai fondamentali del buddhismo - a cui farò riferimento nel seguito - premetto tuttavia solo un accenno alle basi dottrinali del primo buddhismo; basi che sono abbastanza semplici e sono costituite dai seguenti temi: le quattro nobili verità, la produzione condizionata e l’ottuplice sentiero.

Uno dei pilastri del buddhismo è la teoria delle «Quattro Nobili Verità»: 1) La vita è piena di dolore. 2) L’origine del dolore è la sete di esistenza che ci trascina da una esistenza all’altra. 3) È possibile sopprimere il dolore: sopprimendo la sete di esistere, si distrugge così anche l’origine del dolore. 4) La via che conduce alla soppressione del dolore è l’Ottuplice Sentiero.

Queste verità poggiano sull’incessante trasformazione delle cose: la realtà è mutevole e questa mutevolezza è la fonte della sofferenza. Con questa convinzione il Buddha elaborò la dottrina della «produzione condizionata», indicando dodici nessi causali  o «anelli» (nidana) ciascuno dei quali determina il successivo e distoglie dalla illuminazione. Il primo di essi è l’ignoranza (avijja) una sorta di falsa consapevolezza che alimenta l’illusione. Essa determina un risultato karmico sotto forma di “impressioni” (sankhara), che a loro volta determinano la coscienza individuale (vinnana). Grazie ai residui delle esistenze precedenti, infatti, si genera l’illusione che esista un centro senziente o coscienziale. Da questo centro deriva un complesso denominabile namarupa, cioè “nome e forma”, che rappresenta un primo abbozzo corporeo di un individuo. Da essa si dipartono i sei organi sensoriali, cioè occhio, orecchio, naso, lingua, tatto e complesso psichico: ciascuno di essi esercita una propria funzione specifica. Dagli organi dipende il contatto: infatti, una volta che esistano i sei sensi, si stabilisce una relazione con le cose. Dal contatto ha origine la sensazione (vedana), che suscita una risposta emotiva. Dalla sensazione dipende la sete (tanha), ossia il desiderio dell’oggetto, la voglia di goderne. Dalla sete nasce l’attaccamento (upadana) cioè la tendenza a ripetere la esperienza piacevole e respingere quella dolorosa. L’attaccamento genera il divenire (bhava).

Buddha formulò una «teoria della reincarnazione» diversa da quella del brahamanesimo: ogni esistenza inizia da un residuo, determinato dalle azioni (karma) delle vite precedenti. Nel buddhismo non esiste un substrato “animico” o “sostanziale” delle reincarnazioni- a differenza del brahamanesimo, che ammette un atman, cioè una entità individuale. Nel buddhismo, l’unico elemento di continuità tra una incarnazione e l’altra è il dharma: una sorta di “minimo psicofisico” che si disintegra immediatamente e non si può quindi considerare un elemento sostanziale o personale. Il buddhismo elabora una teoria della reincarnazione in cui ogni nascita, determinata dalla ignoranza, in base alla serie degli anelli, provoca di nuovo la messa in moto della sofferenza: ignoranza e sofferenza procedono di pari passo. I dodici anelli esercitano una azione costante, senza alcuna pausa. A meno che non si distrugga il primo anello, l’ignoranza: in questo caso crolla tutto. Non si depositano le impressioni karmiche e si gettano le basi per impedire la rinascita. Il buddhismo non si preoccupa di liberare l’individuo (garantendogli ad esempio la rinascita i una altra dimensione come il cristianesimo), ma, al  contrario, cerca di soffocarne ogni possibile residuo. Infatti, nella misura in cui ci attacchiamo all’esistenza, siamo sempre più invischiati nel dolore e soggetti alla rinascita. Solo quando il ciclo vita e morte (samsara) verrà spezzato, si attingerà al nirvana, cioè la condizione di estinzione totale, in cui la coscienza non esiste più. Il buddhismo non è liberazione dell’Io, ma liberazione dall’Io. Più ci attacchiamo alla vita, più alimentiamo la sete di esistere, più ci allontaniamo dalla liberazione.

Per raggiungere la liberazione, si deve percorrere l’«Ottuplice Sentiero», che è così diviso: 1) retta visione, 2) retto scopo, 3) retta parola, 4) rette azioni, 5) retto modo di guadagnarsi il pane, 6) retto sforzo, 7) retta concentrazione, 8) retta meditazione. Questi otto fattori costituiscono l'essenza dell'ideale di vita buddhista. Sono un programma attentamente considerato di purificazione del pensiero, della parola e delle azioni che ha come risultato finale la totale cessazione dell'avidità e il conseguente sorgere dell'Illuminazione, la Perfetta Saggezza. Gli otto fattori non sono tappe da percorrere in sequenza, una dopo l'altra, bensì rappresentano una sinergia di elementi paragonabili ai fili attorcigliati che formano un'unica fune. E' tuttavia inevitabile presentarli in sequenza, sebbene praticare l'Ottuplice Sentiero non deve essere confuso con il semplice apprendimento teorico del medesimo.

Il buddhismo originario indica una via di salvezza che ogni individuo può realizzare da sé e i cui ideale è incarnato dall’arhat, cioè colui che ha raggiunto il pieno risveglio spirituale. In reazione contro questa concezione, ritenuta troppo ristretta, inizia a delinearsi intorno al 250 a.C. una nuova tendenza, nota con il nome di Mahāyāna  (Grande Veicolo) che accusa il buddismo antico – che viene quindi denominato Hīnayāna  (Piccolo Veicolo) -  di limitare la salvezza solamente per l’elite monastica, Il Mahāyāna ambisce infatti ad aprire la via di salvezza per tutti gli esseri viventi. Mentre l’Hīnayāna sarebbe rimasto radicato nell’ Asia meridionale (Ceylon, Birmania, Cambogia, Siam, Laos) la nuova tendenza Mahāyāna  era destinata ad una grande espansione in direzione della Cina. Il buddhismo cominciò infatti la sua lenta diffusione in Cina nel I° sec. d.C. nel periodo della dinastia Han posteriore, grazie sia alla predicazione di missionari stranieri, sia al lavoro di pellegrini cinesi che raggiunsero l’India e tornarono riportandosi i preziosi Sutra. Favorito dallo smarrimento morale del mondo cinese conseguente alla decadenza e al crollo degli Han, a cui fanno seguito tre secoli di divisioni, il buddhismo si radica profondamente in Cina integrando le insufficienze della mentalità confuciana.

Fu necessario un lungo e paziente lavoro di traduzione per rendere comprensibili ai cinesi i testi buddhisti: il fatto che tali testi venissero tradotti nella lingua cinese classica non agevolò certo la diffusione negli ambienti popolari. In questa opera di traduzione, le categorie cinesi più affini al quelle buddhiste, furono quelle espresse dal pensiero taoista: fu infatti proprio il taoismo a fare da collegamento tra il buddhismo indiano e la cultura cinese, favorendo la formazione di un buddhismo “sinico”. La letteratura buddhista  fu spiegata facendo ricorso ai “tre misteri”, cioè al Dao De Jing di lao Zi, all’opera di Zhuang Zi e allo Yi Jing. Il metodo usato per tradurre i Sutra fu quello analogico, nel senso che si cercò di reperire nei testi basilari del taoismo l’equivalente dei concetti buddhisti da trasmettere. A titolo di esempio, il «risveglio» (bodhi) è inteso in termini di Dao, l’«estinzione» (nirvāna) in termini di non-agire (wu wei), l’«arhat» buddhista è assimilato all’uomo vero (zhen ren), e così via.

Ma in che cosa consisteva la presunta affinità tra taoismo e buddhismo? I punti principali di contatto erano l’etica e la concezione della vita. In primo luogo, l’interesse per il buddhismo si concentra sul karma e sul ciclo delle rinascite: questi concetti, sono inizialmente compresi nel contesto della mentalità taoista, in termini di “trasmissione del fardello”: l’individuo è passibile di sanzioni per gli errori commessi dai suoi avi, in quanto, secondo le credenze cinesi, il bene o il male compiti dagli antenati potevano influire sulla sorte dei discendenti. La novità tuttavia è che la concezione buddhista del karma introduce la responsabilità “individuale”, mentre secondo i cinesi le ricadute delle azioni degli antenati coinvolgevano tutta la famiglia.

La repressione dei desideri era un elemento comune:  i taoisti raccomandavano la condizione in cui si desidera di non avere più desideri, i buddhisti concepivano l’attaccamento alla vita come il desiderio nefasto principale, da cui derivavano tutti gli altri. Inoltre, entrambi concepivano l’agire come cosa negativa: i buddhisti vedevano nel karma l’elemento determinante della sofferenza, cioè la causa di nuove reincarnazioni; i taoisti esaltavano una attività priva di attività (wu wei), ossia un tipo di azione consistente nel minimo sforzo, che non interferisse con il corso naturale delle cose. Anche le concezioni della vita erano affini: entrambe le correnti esaltavano la spontaneità della vita e rifuggivano dalla speculazione. I buddhisti reagivano al dogmatismo brahmanico, i taoisti agli ideali culturali promosso dai confuciani. I buddhisti sostenevano che la realtà era priva di significato, e perciò “vuota”: i taoisti esaltavano una realtà suprema definita come “non essere”. Alterando la tradizione taoista che vedeva Lao Zi scomparire nell’ovest della Cina dopo avere  scritto il Dao De Jing, si arrivò a pensare che il maestro avesse proseguito il suo cammino fino all’India, dove avrebbe convertito i “barbari” e che il Buddha non sarebbe altro che una reincarnazione di Lao Zi; questo a significar che in fondo il buddhismo non era nient’altro che una variante del pensiero taoista destinata a dei barbari.

Dopo il crollo degli Han, la Cina si scinde in dinastie del Nord e Dinastie del Sud. Nel 311 gli invasori Xiongnu (da noi li chiamavano Unni) abbattono i Jin e prendono il controllo della Cina del nord, controllo che durerà tre secoli fino alla successiva riunificazione attuata dai Sui nel 589. L’imperatore, col suo seguito di funzionari, letterati e monaci è costretto a trasferirsi a sud (Nanchino) e riprende a governare ciò che resta della Cina (Jin orientali). Il buddhismo di epoca Han si era innanzitutto rivolto ad un pubblico popolare, ponendo l’accento sulle pratiche di meditazione, sul tema della compassione e dell’accumulazione del karma che secondo il pragmatismo tipico dei cinesi, si traduceva soprattutto in donazioni alle comunità monastiche. Nel Sud, invece, l’impostazione culturale e letteraria porta ad uno sviluppo di traduzione dei testi buddhisti molto più raffinato del precedente, volto principalmente alla classe dei letterati.

Nel nord la situazione si rivela nettamente differente: i regni non cinesi fanno del buddhismo una religione di stato, privilegiandone gli aspetti devozionali e la pratica religiosa. Le dinastie non cinesi che si succedono al nord incoraggiano vigorosamente lo sviluppo del buddhismo che, essendo come queste di origine straniera, procura loro un fondamento spirituale e una legittimazione politica al di fuori dei valori cinesi tradizionali. Nella Cina del Nord tuttavia si ripropone l’inconsueta alleanza di taoisti e confuciani contro i buddhisti, orientati a ripristinare una certa sinizzazione nei ranghi della burocrazia imperiale: la loro azione congiunta riesce a scatenare una delle prime persecuzioni anti-buddhiste di ampia portata: un editto imperiale del 446 ordina di distruggere tutti i sutra (testi sacri), gli stupa (monumenti funerari) e  i dipinti buddhisti e di giustiziare tutti i monaci senza distinzione di età. Per farsi perdonare di tale brutale repressione e per proclamare di fronte all’eternità la gloria del buddhismo, l’imperatore successivamente fece intagliare nella roccia i Buddha di Yungang, presso la capitale Datong.

Dopo tre secoli di divisione, la dinastia Sui operò la riunificazione della Cina e contestualmente anche le scuole buddhiste del nord e del sud vennero in qualche modo riunificate. Va segnalata la scuola Tiantai (dal nome dei monti, nella provincia dello Zhejiang, dove il fondatore Zhiyi si era stabilito) è la prima delle scuole buddhiste specificatamente cinesi ad apparire sotto la dinastia Sui, operando la sintesi delle due tradizioni buddhiste del nord e del Sud. Secondo questa scuola, il Buddha è venuto in questo mondo per apportare la salvezza, cioè il risveglio, a tutti gli esseri animati, senza alcuna distinzione: non solo, ma viene affermato che la buddhità è accessibile addirittura nella propria vita, rompendo con la tradizione indiana che condizionava la salvezza ad una serie quasi infinita di reincarnazioni.

La successiva dinastia Tang segna un periodo di vera e propria fioritura religiosa che vede introdursi in Cina molteplici influenze provenienti dall’ Asia centrale (islam, nestorianesimo, manicheismo). Tuttavia i sovrani Tang sembrano relativamente meno fervidi dei loro predecessori delle dinastie del Sud nell’abbracciare il buddhismo. Il clan imperiale comincia con l’affermare le proprie affinità con il taoismo e a dichiararsi discendente di Laozi: il Daodejing e il Zhuangzi diventano oggetto di determinate prove degli esami imperiali. Ma anche la  scuola confuciana sopravvive durante l’epoca Tang, mantenendo un posto di rilevo nel mondo dei letterati. Pur tuttavia il clero buddhista rappresenta in quel periodo il doppio del clero taoista e costituisce ormai una forza con cui è necessario trovare una modalità di convivenza. Le scuole buddhiste non fanno quasi più riferimento al buddhismo indiano e reinterpretano secondo una sensibilità tutta cinese i testi indiani: inoltre, la mancanza di una dottrina dogmatica e di una autorità centrale favoriscono lo sviluppo di miriadi di comunità monastiche, relativamente indipendenti le une dalle altre.

Un’altra importantissima scuola è quella Chan, fondata dal patriarca Hongren (602-674), che rivendica una propria filiazione diretta dallo stesso Buddha, il cui insegnamento si fonda sul Sutra del Diamante. Il termine chan è la forma abbreviata della parola Channa, traduzione cinese della parola sanscrita dhyana, che significa “meditazione”. In realtà il buddhismo Chan rappresenta un insieme di scuole, dottrine e lignaggi del buddhismo cinese che fanno riferimento alla figura di Bodhidharma, il leggendario monaco indiano tradizionalmente ritenuto il suo fondatore. In particolare, sotto i Tang, predominarono due branche principali, quella di Linji e quella di Cao Dong, il cui nome deriva dalle due montagne associate ai due fondatori (vedremo più avanti l’importanza di queste due scuole).

Sin dal suo apparire, per la sua predisposizione pratica, la scuola Chan generò i propri maestri in luoghi remoti, dove la sopravvivenza era possibile soltanto con la coltivazione della terra; sistema di vita sconosciuto al primitivo Sangha (comunità di monaci) Indiano. Il lavoro divenne uno dei fattori fondamentali della pratica: questo faceva parte infatti della mentalità cinese, laboriosa, diretta ed estremamente pratica a differenza di quelle indiana; «Un giorno senza lavorare, un giorno senza mangiare» cita un famoso maestro.

Col patriarca Hui Neng, si introduce il concetto della “illuminazione improvvisa”: se uno pratica in modo maturo e stabile, l’illuminazione si realizzerà all’improvviso. La tradizione riporta infatti che Hui Neng ebbe l’illuminazione sentendo un monaco recitare un versetto dal Sutra del Diamante: lui non solo non spiegò mai come aveva ottenuto questo stato ma sostenne che perfino la meditazione non era necessaria. Per giungere all’illuminazione era tuttavia necessario mantenere una “mente-non-so” tutto il tempo e in tutti i luoghi. I monaci coltivavano le terre del Monastero durante il giorno, non leggevano i Sutra, non avevano nemmeno una sala di meditazione, né praticavano formalmente la meditazione seduta. Mantennero viva la loro pratica in mezzo al lavoro fisico svolto durante il giorno.

Il terzo stadio della storia del Chan è associato al  patriarca Ma Zi, che fu il successore di seconda generazione di Hui Neng. Ma Zi inventò i mezzi "shock" del gridare improvvisamente, colpire o chiamare improvvisamente per nome l'interrogante mentre sta uscendo. Ma Zi fu un vero innovatore in questo campo: voleva far breccia nel pensiero concettuale a cui siamo abituati. Hui Neng parlò di arrivare a questo punto, ma non disse mai come arrivarci. Fu lasciato a Ma Zi il compito di inventare queste tattiche di shock improvviso che urtano con la coscienza e fanno breccia al di là di essa. Egli introdusse anche il sistema dei gōng'àn (koan in giapponese):  questa pratica consiste in un tema affidato dal maestro al discepolo cui chiede la soluzione. Durante i colloqui quotidiani col maestro, l’allievo offre una sua risposta al koan, che testimonierà o meno la sua realizzazione della “comprensione della realtà”. Tipicamente il koan contiene una affermazione paradossale, logicamente irrisolvibile, che spinge l’allievo a sospendere il pensiero razionale e arrivare quindi ad una conoscenza intuitiva della realtà. Ma Zi fu il più grande Maestro del suo tempo e si dice che ci fossero, in quel periodo, almeno ottocento monaci nel suo monastero. Trasmise il Dharma a centotrentanove successori ed è passato alla storia come "Il grande Patriarca".

Durante la dinastia Song, tuttavia il Chan andò incontro ad una progressivo declino: innanzitutto nel 845 ci fu una severa repressione del buddhismo da parte dell’imperatore Wu, di fede taoista: Per due anni ci furono persecuzioni severissime contro i buddhisti. Le statistiche di questa repressioni sono notevoli: 260.000 monaci e monache furono costretti ad abbandonare l'abito; 4.800 monasteri principali furono distrutti. Questo colpo fece vacillare il Buddhismo in Cina e non ci fu più una completa ripresa. Un aspetto ironico di questa persecuzione fu che, mentre il Buddhismo era spazzato via nel Nord della Cina, il Chan era relativamente salvo nel Sud del Paese. Il Chan del Sud non era coinvolto nei giochi di potere della corte reale e non avevano templi con grandi statue del Buddha d'oro e pietre preziose. Nel Nord della Cina, quando i templi vennero distrutti, le statue di bronzo e rame furono fuse e utilizzate per coniare monete. I monaci del Chan meridionale non leggevano nemmeno i Sutra e vivevano la vita semplice delle comunità contadine. Non avevano, perciò, ricchezze che potessero essere portate via. Non avevano un alto profilo e così non perdettero molto nelle persecuzioni.

Ed ecco il secondo grande spostamento ad est: i primi contatti tra le scuole buddhiste cinesi e il Giappone risalgono alla metà del VIII secolo: la scuola Tendai, risultò infatti la versione giapponese della scuola cinese Tiantai, di cui mantenne le basi dottrinali, integrate tuttavia da elementi delle scuole Chan sia settentrionali che meridionali (anche in Giappone, Buddha veniva da ovest…).

Nei suoi primi secoli di vita la scuola Tendai fiorì sotto il diretto patronato della famiglia imperiale, divenendo dunque la forma più importante del buddhismo giapponese, generando a sua volta buona parte delle scuole giapponesi tutt'oggi esistenti. Furono infatti rispettivamente Eisai e Dogen - monaci ordinati nei monasteri Tendai -  i fondatori delle scuole zen (così i giapponesi pronunciavano Chan) Rinzai (versione giapponese della scuola Linji) e Soto (versione giapponese della scuola Cao Dong).

La dottrina buddhista Zen si fonda, come lo stesso Chan da cui strettamente deriva, sul rifiuto di riconoscere autorità alle scritture buddhiste (sutra). Questo non significa che lo Zen rigetti le scritture buddhiste. Anzi, alcune di esse come il Sutra del Cuore, sono spesso utilizzate durante le funzioni religiose e nella formazione dei discepoli. L'unica autorità che il buddhismo Zen riconosce e su cui fonda il proprio insegnamento è tuttavia la particolare esperienza che viene indicata come  satori  (= comprensione della Realtà) o anche  kenshō, (= guardare la propria natura di Buddha) ovvero «attualizzare la propria natura “illuminata”». Questa esperienza non viene semplicemente identificata come "intuizione" quanto piuttosto come una esperienza improvvisa e profonda che consente la "visione del cuore delle cose" la quale risulta essere identica alla natura di Buddha (busshō). Origine e fondamento delle arti e della cultura, lo Zen ispirò la poesia (haiku), la cerimonia del tè (chadō), l'arte di disporre i fiori (ikebana), l'arte della calligrafia (shodō), la pittura (zen-ga), il teatro (), l'arte culinaria (zen-ryori) ed è alla base delle arti marziali (aikido, karate, judo), dell'arte della spada (kendo) e del tiro con l'arco (kyudo).Obiettivo e contenuto delle dottrine Zen è dunque realizzare il satori il quale non corrisponde al nirvana obiettivo delle scuole buddhiste indiane: se quest'ultimo si presenta infatti fondamentalmente come rinuncia al mondo e distacco da esso, il satori si propone una partecipazione attiva e consapevole al mondo anche se percepito nella sua dimensione di «vacuità». Lo Zen evita la speculazione intellettuale e si distingue anche dalle altre scuole buddhiste mahayana per aver reso centrale la pratica meditativa zazen (= meditazione seduta)  accompagnata dallo studio dei koan.

Per arrivare a osservare il terzo spostamento ad oriente di Buddha dobbiamo attendere i flussi di immigrazione avviatisi in modo massiccio alla fine del XIX secolo tra l’Asia e le coste occidentali del continente americano. Nel 1893 a Chicago dei circoli cristiani promossero il World Parliament of Religion ed in quella occasione il maestro zen giapponese Shaku Soyen fu invitato a partecipare. Nel 1906 iniziarono ad arrivare negli Stati Uniti dei suoi discepoli che gradualmente fecero conoscere la dottrina zen agli americani. Nel 1931 venne fondata a New York la Buddhist Society of America (poi rinominata First Zen Institute) e negli stessi anni vennero fondato diversi gruppi di meditazione a San Francisco e Los Angeles. È comunque nel Dopoguerra che il Buddhismo Zen prende piede negli Stati Uniti, grazie anche al movimento beat. Lo Zen in occidente non è visto tanto come una religione, quanto come una filosofia dalla quale ricava alcune idee chiave: la più importante è la negazione della capacità dell’individuo di agire sul mondo per modificarlo in base a un proprio progetto. Di qui l’idea che la mente deve essere vuota, pronta ad accogliere ciò che viene dall’esterno, piuttosto che formarsi un’idea di come agire sull’esterno. All’idea di vuoto si collega l’idea di silenzio, contrapposta all’idea di suono, prodotto della volontà. La constatazione dell’inerme pochezza dell’individuo non è però accolta con tragica consapevolezza, come avviene nel nichilismo, ben noto alle filosofie occidentali, ma con un senso di allegra liberazione, per non dire di spensieratezza. Se tutto è frutto del caso, perché non affidare al caso anche la composizione musicale, lasciando che il lancio delle monetine dell’oracolo cinese I-Ching determini ogni aspetto della partitura? Così inizia a fare John Cage, con Music of Changes del 1951. Nel contempo Cage propone una radicale rivalutazione del silenzio. In 4’33’’ (per qualunque strumento o qualunque combinazione di strumenti), del 1952, la partitura coincide di fatto col titolo, che delimita il periodo di tempo in cui l’esecutore (o gli esecutori) non devono fare e tantomeno suonare assolutamente nulla ("do nothing" è l’indicazione).

In quanto alla diffusione del buddhismo in Europa (quarto spostamento ad est…) possiamo distinguere una prima fase caratterizzata dall’interesse, puramente teorico, per il buddhismo da parte di filosofi: un grandissimo contributo è stato dato da Arthur Schopenhauer, che è stato definito “il precursore del buddhismo in Occidente”. Non sempre, peraltro, le idee di questi filosofi sul buddhismo sono precise. Una fase successiva del buddhismo europeo, con la nascita di vere e proprie comunità, comincia dopo la Prima guerra mondiale. In Germania le comunità rivali del giurista Georg Grimm (1868-1945) e del medico Paul Dahlke (1865-1928), in Inghilterra la “Loggia buddhista” creata da Christmas Humphreys (1901-1983) originariamente nell’ambito della Società Teosofica, in Francia gli “Amici del Buddhismo” fondati a Parigi da Grace Constant Lounsbery (1876-1964) raccolgono diverse centinaia di persone.

Cominciano a essere conosciute forme di buddhismo giapponese della tradizione di Nichiren e di quella esoterica shingon, e tibetano delle diverse scuole vajrayana. L’invasione cinese del Tibet, nel 1950, e la repressione del tentativo di rivolta del 1959, portano a una fuga verso l’Occidente di numerosi maestri, e fanno del XIV Dalai Lama  una figura di grande notorietà internazionale. Si può parlare così di un’esplosione di interesse per lo zen negli anni 1960 e 1970 (anche negli ambienti della controcultura hippie), seguito dal grande successo del buddhismo tibetano a partire dagli anni 1980. Questo successo passa anche per la letteratura e il cinema, dal Siddhartha (1922) di Hermann Hesse (1877-1962) a film come Piccolo Buddha, Sette anni in Tibet e Kundun. Questi spunti letterari e cinematografici - insieme con la notorietà del XIV Dalai Lama - hanno sicuramente favorito anche la diffusione del buddhismo in Italia, dove maestri buddhisti orientali sono arrivati più tardi rispetto alla Gran Bretagna o alla Francia, sia per la virtuale assenza di immigrazione, sia per la mancanza di legami coloniali con Paesi a maggioranza buddhista.

L'Occidente è ormai caratterizzato da una presenza importante del buddhismo, che secondo stime aggiornate al 2012 totalizza 473.818.000 fedeli nel mondo. Gli occidentali convertiti (o figli di convertiti) sono oltre tre milioni, cui si devono però sommare oltre quattro milioni di buddhisti “etnici” di origine prevalentemente giapponese, cinese, coreana, indocinese e singalese. In Europa i buddisti sarebbero 1,5 milioni, di cui 600.000 in Francia (400.000 rifugiati dal sudest asiatico: Vietnam, Laos e Cambogia, 50.000 di origine cinese, 150.000 francesi.

La presenza buddhista in Italia comincia a farsi notare negli anni 1960, con la fondazione a Firenze dell'Associazione Buddhista Italiana e con la pubblicazione dal 1967 della rivista Buddhismo Scientifico. Negli anni 1970 e 1980 questa presenza cresce, sia con l'influsso di maestri di scuola vajrayana profughi dal Tibet, sia con la diffusione dello zen, che si affianca alla già esistente presenza theravada. Per vie autonome, arrivano in Italia anche gruppi di tradizione Nichiren. Nel 1981 Vincenzo Piga (1921-1998) fonda la rivista Paramita. Quaderni di Buddhismo per la pratica e per il dialogo, che continuerà la sua esistenza fino alla morte del fondatore. In Italia esistono almeno 60 centri buddisti, in gran parte nelle regioni settentrionali. Tutte le grandi scuole tradizionali sono presenti: in particolare quella Theravada (Sri Lanka e Sudest asiatico), quella Zen (Giappone) e quella tibetana. Di questi centri, 28 fanno capo all'Unione Buddista Italiana, nata nel 1985, che è stata riconosciuta dallo Stato come "ente morale avente fini di culto", e che attende di poter firmare un'Intesa vera e propria. L'UBI non è interessata a un insegnamento del Buddismo nella scuola statale, ma chiede di partecipare alla ripartizione dell'8 per mille del gettito Irpef.

In tutto i buddisti italiani sono circa 60.000 (di cui 44.000 cinesi e cingalesi immigrati e rifugiati; 16.000 di varie nazionalità, inclusa quella italiana); la presenza femminile, di ceto medio-alto, con interessi nei campi dell'ecologia e della non-violenza, è preponderante: 70%. I monaci buddisti sono una decina di stranieri e una quarantina di italiani, prevalentemente seguaci della tradizione Zen. I monasteri sono tre. Escludendo qualsiasi intento di proselitismo, i buddisti italiani si dedicano prevalentemente al volontariato, ad attività socialmente utili, al dialogo interreligioso e interculturale. Le riviste più importanti sono: Paramita, Siddhi, Sati, Zen, Merigar, che tirano nel complesso più di 7.000 copie.

Concludendo, il buddhismo ha già fatto – nel giro di circa 2500 anni – tre quarti del giro del mondo: chissà quando avverrà il prossimo spostamento verso est? E dove avverrà? Magari in India…. così il Buddha riposerà –rinato e trasformato dal contatto di tutti i popoli del mondo - nella sua terra.

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