«In questo periodo - scrive
Jaspers - si concentrano i fatti più straordinari. In Cina vissero Confucio e
Lao Zi, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mozi,
Zhuang Zi, e innumerevoli altri. In India apparvero le Upanishad, visse Buddha
e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibilità filosofiche fino allo
scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nichilismo. In Iran
Zarathustra propagò l'eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male.
In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da Elia a Isaia e Geremia. La Grecia vide Omero, i
filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidite e Archimede.
Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi
contemporaneamente in Cina, in India e nell'Occidente, senza che alcuna di
queste regioni sapesse delle altre. La novità di quest'epoca è che in tutti e
tre i mondi l'uomo prende coscienza dell'Essere nella sua interezza, di sé stesso
e dei suoi limiti. Viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria
impotenza, pone domande radicali».
In altri termini, nel Periodo Assiale,
sembra che l'umanità abbia fatto un
incredibile salto nell'approfondimento della conoscenza di sé e si sia operata una trasformazione globale
dell'essere umano a cui, sempre secondo
Jaspers, si può dare il nome di «spiritualizzazione». Vennero infatti formulate le categorie
fondamentali secondo cui pensiamo ancor oggi
e poste le basi delle religioni universali, di cui vivono tuttora gli uomini.
e poste le basi delle religioni universali, di cui vivono tuttora gli uomini.
Per chiarezza riguardo ai
fondamentali del buddhismo - a cui farò riferimento nel seguito - premetto
tuttavia solo un accenno alle basi dottrinali del primo buddhismo; basi che sono
abbastanza semplici e sono costituite dai seguenti temi: le quattro nobili
verità, la produzione condizionata e l’ottuplice sentiero.
Uno dei pilastri del buddhismo è la
teoria delle «Quattro Nobili Verità»: 1) La vita è piena di dolore. 2) L’origine
del dolore è la sete di esistenza che ci trascina da una esistenza all’altra.
3) È possibile
sopprimere il dolore: sopprimendo la sete di esistere, si distrugge così anche
l’origine del dolore. 4) La via che conduce alla soppressione del dolore è
l’Ottuplice Sentiero.
Queste verità poggiano sull’incessante trasformazione delle cose: la realtà è mutevole e questa mutevolezza è la fonte della sofferenza. Con questa convinzione il Buddha elaborò la dottrina della «produzione condizionata», indicando dodici nessi causali o «anelli» (nidana) ciascuno dei quali determina il successivo e distoglie dalla illuminazione. Il primo di essi è l’ignoranza (avijja) una sorta di falsa consapevolezza che alimenta l’illusione. Essa determina un risultato karmico sotto forma di “impressioni” (sankhara), che a loro volta determinano la coscienza individuale (vinnana). Grazie ai residui delle esistenze precedenti, infatti, si genera l’illusione che esista un centro senziente o coscienziale. Da questo centro deriva un complesso denominabile namarupa, cioè “nome e forma”, che rappresenta un primo abbozzo corporeo di un individuo. Da essa si dipartono i sei organi sensoriali, cioè occhio, orecchio, naso, lingua, tatto e complesso psichico: ciascuno di essi esercita una propria funzione specifica. Dagli organi dipende il contatto: infatti, una volta che esistano i sei sensi, si stabilisce una relazione con le cose. Dal contatto ha origine la sensazione (vedana), che suscita una risposta emotiva. Dalla sensazione dipende la sete (tanha), ossia il desiderio dell’oggetto, la voglia di goderne. Dalla sete nasce l’attaccamento (upadana) cioè la tendenza a ripetere la esperienza piacevole e respingere quella dolorosa. L’attaccamento genera il divenire (bhava).
Buddha formulò una «teoria della reincarnazione» diversa da quella del brahamanesimo: ogni
esistenza inizia da un residuo, determinato dalle azioni (karma) delle vite
precedenti. Nel buddhismo non esiste un substrato “animico” o “sostanziale”
delle reincarnazioni- a differenza del brahamanesimo, che ammette un atman, cioè una entità individuale. Nel
buddhismo, l’unico elemento di continuità tra una incarnazione e l’altra è il dharma: una sorta di “minimo
psicofisico” che si disintegra immediatamente e non si può quindi considerare
un elemento sostanziale o personale. Il buddhismo elabora una teoria della
reincarnazione in cui ogni nascita, determinata dalla ignoranza, in base alla
serie degli anelli, provoca di nuovo la messa in moto della sofferenza:
ignoranza e sofferenza procedono di pari passo. I dodici anelli esercitano una
azione costante, senza alcuna pausa. A meno che non si distrugga il primo
anello, l’ignoranza: in questo caso crolla tutto. Non si depositano le
impressioni karmiche e si gettano le basi per impedire la rinascita. Il buddhismo
non si preoccupa di liberare l’individuo (garantendogli ad esempio la rinascita
i una altra dimensione come il cristianesimo), ma, al contrario, cerca di soffocarne ogni possibile
residuo. Infatti, nella misura in cui ci attacchiamo all’esistenza, siamo
sempre più invischiati nel dolore e soggetti alla rinascita. Solo quando il
ciclo vita e morte (samsara) verrà
spezzato, si attingerà al nirvana,
cioè la condizione di estinzione totale, in cui la coscienza non esiste più. Il
buddhismo non è liberazione dell’Io, ma liberazione dall’Io. Più ci attacchiamo
alla vita, più alimentiamo la sete di esistere, più ci allontaniamo dalla
liberazione.
Per raggiungere la liberazione, si
deve percorrere l’«Ottuplice Sentiero»,
che è così diviso: 1) retta visione, 2) retto scopo, 3) retta parola, 4) rette
azioni, 5) retto modo di guadagnarsi il pane, 6) retto sforzo, 7) retta
concentrazione, 8) retta meditazione. Questi otto
fattori costituiscono l'essenza dell'ideale di vita buddhista. Sono un
programma attentamente considerato di purificazione del pensiero, della parola
e delle azioni che ha come risultato finale la totale cessazione dell'avidità e
il conseguente sorgere dell'Illuminazione, la Perfetta Saggezza. Gli otto
fattori non sono tappe da percorrere in sequenza, una dopo l'altra, bensì
rappresentano una sinergia di elementi paragonabili ai fili attorcigliati che
formano un'unica fune. E' tuttavia inevitabile presentarli in sequenza, sebbene
praticare l'Ottuplice Sentiero non deve essere confuso con il semplice
apprendimento teorico del medesimo.
Il buddhismo originario indica una
via di salvezza che ogni individuo può realizzare da sé e i cui ideale è
incarnato dall’arhat, cioè colui che
ha raggiunto il pieno risveglio spirituale. In reazione contro questa
concezione, ritenuta troppo ristretta, inizia a delinearsi intorno al 250 a.C.
una nuova tendenza, nota con il nome di Mahāyāna (Grande Veicolo) che accusa il buddismo antico
– che viene quindi denominato Hīnayāna (Piccolo Veicolo) - di limitare la salvezza solamente per l’elite
monastica, Il Mahāyāna ambisce
infatti ad aprire la via di salvezza per tutti gli esseri viventi. Mentre
l’Hīnayāna sarebbe rimasto radicato nell’ Asia meridionale (Ceylon, Birmania,
Cambogia, Siam, Laos) la nuova tendenza Mahāyāna era destinata ad una grande espansione in
direzione della Cina. Il buddhismo cominciò infatti la sua lenta diffusione in
Cina nel I° sec. d.C. nel periodo della dinastia Han posteriore, grazie sia
alla predicazione di missionari stranieri, sia al lavoro di pellegrini cinesi
che raggiunsero l’India e tornarono riportandosi i preziosi Sutra. Favorito
dallo smarrimento morale del mondo cinese conseguente alla decadenza e al
crollo degli Han, a cui fanno seguito tre secoli di divisioni, il buddhismo si
radica profondamente in Cina integrando le insufficienze della mentalità
confuciana.
Ma in che cosa consisteva la
presunta affinità tra taoismo e buddhismo? I punti principali di contatto erano
l’etica e la concezione della vita. In primo luogo, l’interesse per il buddhismo
si concentra sul karma e sul ciclo delle rinascite: questi concetti, sono
inizialmente compresi nel contesto della mentalità taoista, in termini di
“trasmissione del fardello”: l’individuo è passibile di sanzioni per gli errori
commessi dai suoi avi, in quanto, secondo le credenze cinesi, il bene o il male
compiti dagli antenati potevano influire sulla sorte dei discendenti. La novità
tuttavia è che la concezione buddhista del karma introduce la responsabilità “individuale”,
mentre secondo i cinesi le ricadute delle azioni degli antenati coinvolgevano
tutta la famiglia.
La repressione dei desideri era un elemento comune: i taoisti raccomandavano la condizione in cui si desidera di non avere più desideri, i buddhisti concepivano l’attaccamento alla vita come il desiderio nefasto principale, da cui derivavano tutti gli altri. Inoltre, entrambi concepivano l’agire come cosa negativa: i buddhisti vedevano nel karma l’elemento determinante della sofferenza, cioè la causa di nuove reincarnazioni; i taoisti esaltavano una attività priva di attività (wu wei), ossia un tipo di azione consistente nel minimo sforzo, che non interferisse con il corso naturale delle cose. Anche le concezioni della vita erano affini: entrambe le correnti esaltavano la spontaneità della vita e rifuggivano dalla speculazione. I buddhisti reagivano al dogmatismo brahmanico, i taoisti agli ideali culturali promosso dai confuciani. I buddhisti sostenevano che la realtà era priva di significato, e perciò “vuota”: i taoisti esaltavano una realtà suprema definita come “non essere”. Alterando la tradizione taoista che vedeva Lao Zi scomparire nell’ovest della Cina dopo avere scritto il Dao De Jing, si arrivò a pensare che il maestro avesse proseguito il suo cammino fino all’India, dove avrebbe convertito i “barbari” e che il Buddha non sarebbe altro che una reincarnazione di Lao Zi; questo a significar che in fondo il buddhismo non era nient’altro che una variante del pensiero taoista destinata a dei barbari.
Dopo il crollo degli Han, la Cina
si scinde in dinastie del Nord e Dinastie del Sud. Nel 311 gli invasori Xiongnu
(da noi li chiamavano Unni) abbattono i Jin e prendono il controllo della Cina
del nord, controllo che durerà tre secoli fino alla successiva riunificazione
attuata dai Sui nel 589. L’imperatore, col suo seguito di funzionari, letterati
e monaci è costretto a trasferirsi a sud (Nanchino) e riprende a governare ciò
che resta della Cina (Jin orientali). Il buddhismo di epoca Han si era innanzitutto
rivolto ad un pubblico popolare, ponendo l’accento sulle pratiche di
meditazione, sul tema della compassione e dell’accumulazione del karma che
secondo il pragmatismo tipico dei cinesi, si traduceva soprattutto in donazioni
alle comunità monastiche. Nel Sud, invece, l’impostazione culturale e
letteraria porta ad uno sviluppo di traduzione dei testi buddhisti molto più
raffinato del precedente, volto principalmente alla classe dei letterati.
Nel nord la situazione si rivela
nettamente differente: i regni non cinesi fanno del buddhismo una religione di
stato, privilegiandone gli aspetti devozionali e la pratica religiosa. Le
dinastie non cinesi che si succedono al nord incoraggiano vigorosamente lo
sviluppo del buddhismo che, essendo come queste di origine straniera, procura
loro un fondamento spirituale e una legittimazione politica al di fuori dei
valori cinesi tradizionali. Nella Cina del Nord tuttavia si ripropone
l’inconsueta alleanza di taoisti e confuciani contro i buddhisti, orientati a
ripristinare una certa sinizzazione nei ranghi della burocrazia imperiale: la
loro azione congiunta riesce a scatenare una delle prime persecuzioni
anti-buddhiste di ampia portata: un editto imperiale del 446 ordina di
distruggere tutti i sutra (testi
sacri), gli stupa (monumenti
funerari) e i dipinti buddhisti e di
giustiziare tutti i monaci senza distinzione di età. Per farsi perdonare di
tale brutale repressione e per proclamare di fronte all’eternità la gloria del
buddhismo, l’imperatore successivamente fece intagliare nella roccia i Buddha
di Yungang, presso la capitale Datong.
Dopo tre secoli di divisione, la
dinastia Sui operò la riunificazione della Cina e contestualmente anche le
scuole buddhiste del nord e del sud vennero in qualche modo riunificate. Va
segnalata la scuola Tiantai (dal nome dei monti, nella provincia dello
Zhejiang, dove il fondatore Zhiyi si era stabilito) è la prima delle scuole
buddhiste specificatamente cinesi ad apparire sotto la dinastia Sui, operando
la sintesi delle due tradizioni buddhiste del nord e del Sud. Secondo questa
scuola, il Buddha è venuto in questo mondo per apportare la salvezza, cioè il
risveglio, a tutti gli esseri animati, senza alcuna distinzione: non solo, ma
viene affermato che la buddhità è accessibile addirittura nella propria vita, rompendo con la tradizione indiana
che condizionava la salvezza ad una serie quasi infinita di reincarnazioni.
La successiva dinastia Tang segna
un periodo di vera e propria fioritura religiosa che vede introdursi in Cina
molteplici influenze provenienti dall’ Asia centrale (islam, nestorianesimo,
manicheismo). Tuttavia i sovrani Tang sembrano relativamente meno fervidi dei
loro predecessori delle dinastie del Sud nell’abbracciare il buddhismo. Il clan
imperiale comincia con l’affermare le proprie affinità con il taoismo e a
dichiararsi discendente di Laozi: il Daodejing e il Zhuangzi diventano oggetto
di determinate prove degli esami imperiali. Ma anche la scuola confuciana sopravvive durante l’epoca
Tang, mantenendo un posto di rilevo nel mondo dei letterati. Pur tuttavia il
clero buddhista rappresenta in quel periodo il doppio del clero taoista e
costituisce ormai una forza con cui è necessario trovare una modalità di
convivenza. Le scuole buddhiste non fanno quasi più riferimento al buddhismo
indiano e reinterpretano secondo una sensibilità tutta cinese i testi indiani:
inoltre, la mancanza di una dottrina dogmatica e di una autorità centrale
favoriscono lo sviluppo di miriadi di comunità monastiche, relativamente
indipendenti le une dalle altre.
Un’altra importantissima scuola è
quella Chan, fondata dal patriarca Hongren (602-674), che rivendica una propria
filiazione diretta dallo stesso Buddha, il cui insegnamento si fonda sul Sutra del Diamante. Il termine chan è la forma abbreviata della parola Channa,
traduzione cinese della parola sanscrita dhyana, che significa “meditazione”. In realtà il buddhismo
Chan rappresenta un insieme di scuole, dottrine e lignaggi del buddhismo cinese
che fanno riferimento alla figura di Bodhidharma, il leggendario monaco indiano
tradizionalmente ritenuto il suo fondatore. In particolare, sotto i Tang,
predominarono due branche principali, quella di Linji e quella di Cao Dong, il
cui nome deriva dalle due montagne associate ai due fondatori (vedremo più
avanti l’importanza di queste due scuole).
Col patriarca Hui Neng, si
introduce il concetto della “illuminazione
improvvisa”: se uno pratica in modo maturo e stabile, l’illuminazione si
realizzerà all’improvviso. La tradizione riporta infatti che Hui Neng ebbe
l’illuminazione sentendo un monaco recitare un versetto dal Sutra del Diamante:
lui non solo non spiegò mai come aveva ottenuto questo stato ma sostenne che
perfino la meditazione non era necessaria. Per giungere all’illuminazione era
tuttavia necessario mantenere una “mente-non-so” tutto il tempo e in tutti i
luoghi. I monaci coltivavano le terre del Monastero durante il giorno, non
leggevano i Sutra, non avevano nemmeno una sala di meditazione, né praticavano
formalmente la meditazione seduta. Mantennero viva la loro pratica in mezzo al
lavoro fisico svolto durante il giorno.
Durante la dinastia Song, tuttavia il Chan andò incontro
ad una progressivo declino: innanzitutto nel 845 ci fu una severa repressione
del buddhismo da parte dell’imperatore Wu, di fede taoista: Per due anni ci
furono persecuzioni severissime contro i buddhisti. Le statistiche di questa
repressioni sono notevoli: 260.000 monaci e monache furono costretti ad
abbandonare l'abito; 4.800 monasteri principali furono distrutti. Questo colpo
fece vacillare il Buddhismo in Cina e non ci fu più una completa ripresa. Un
aspetto ironico di questa persecuzione fu che, mentre il Buddhismo era spazzato
via nel Nord della Cina, il Chan era relativamente salvo nel Sud del Paese. Il
Chan del Sud non era coinvolto nei giochi di potere della corte reale e non
avevano templi con grandi statue del Buddha d'oro e pietre preziose. Nel Nord della
Cina, quando i templi vennero distrutti, le statue di bronzo e rame furono fuse
e utilizzate per coniare monete. I monaci del Chan meridionale non leggevano
nemmeno i Sutra e vivevano la vita semplice delle comunità contadine. Non
avevano, perciò, ricchezze che potessero essere portate via. Non avevano un
alto profilo e così non perdettero molto nelle persecuzioni.
Ed ecco il secondo
grande spostamento ad est: i primi contatti tra le scuole buddhiste cinesi
e il Giappone risalgono alla metà del VIII secolo: la scuola Tendai, risultò
infatti la versione giapponese della scuola cinese Tiantai, di cui mantenne le
basi dottrinali, integrate tuttavia da elementi delle scuole Chan sia
settentrionali che meridionali (anche in Giappone, Buddha veniva da ovest…).
La dottrina buddhista Zen si fonda, come lo stesso Chan
da cui strettamente deriva, sul rifiuto di riconoscere autorità alle scritture
buddhiste (sutra). Questo non
significa che lo Zen rigetti le scritture buddhiste. Anzi, alcune di esse come
il Sutra del Cuore, sono spesso
utilizzate durante le funzioni religiose e nella formazione dei discepoli.
L'unica autorità che il buddhismo Zen riconosce e su cui fonda il proprio
insegnamento è tuttavia la particolare esperienza che viene indicata come satori
(= comprensione della Realtà) o anche
kenshō, (= guardare la propria natura di Buddha) ovvero «attualizzare
la propria natura “illuminata”». Questa esperienza non viene semplicemente
identificata come "intuizione" quanto piuttosto come una esperienza
improvvisa e profonda che consente la "visione del cuore delle cose"
la quale risulta essere identica alla natura di Buddha (busshō). Origine
e fondamento delle arti e della cultura, lo Zen
ispirò la poesia (haiku), la cerimonia del tè (chadō), l'arte di disporre i fiori (ikebana), l'arte della calligrafia (shodō), la pittura (zen-ga),
il teatro (Nō), l'arte culinaria (zen-ryori) ed è alla base delle arti
marziali (aikido, karate, judo), dell'arte della spada (kendo)
e del tiro con l'arco (kyudo).Obiettivo
e contenuto delle dottrine Zen è dunque realizzare il satori il quale non corrisponde al nirvana obiettivo delle scuole buddhiste indiane: se quest'ultimo
si presenta infatti fondamentalmente come rinuncia al mondo e distacco da esso,
il satori si propone una partecipazione attiva e consapevole al mondo
anche se percepito nella sua dimensione di «vacuità». Lo Zen evita la
speculazione intellettuale e si distingue anche dalle altre scuole buddhiste mahayana
per aver reso centrale la pratica meditativa zazen (= meditazione seduta) accompagnata dallo studio dei koan.
Per arrivare a osservare il terzo spostamento ad oriente di Buddha dobbiamo attendere i flussi
di immigrazione avviatisi in modo massiccio alla fine del XIX secolo tra l’Asia
e le coste occidentali del continente americano. Nel 1893 a Chicago dei circoli
cristiani promossero il World Parliament
of Religion ed in quella occasione il maestro zen giapponese Shaku Soyen fu
invitato a partecipare. Nel 1906 iniziarono ad arrivare negli Stati Uniti dei
suoi discepoli che gradualmente fecero conoscere la dottrina zen agli
americani. Nel 1931 venne fondata a New York la Buddhist Society of America (poi rinominata First Zen Institute) e negli stessi anni vennero fondato diversi
gruppi di meditazione a San Francisco e Los Angeles. È comunque nel Dopoguerra
che il Buddhismo Zen prende piede negli Stati Uniti, grazie anche al movimento beat. Lo Zen in occidente non è visto tanto come una
religione, quanto come una filosofia dalla quale ricava alcune idee chiave: la
più importante è la negazione della capacità dell’individuo di agire sul mondo
per modificarlo in base a un proprio progetto. Di qui l’idea che la mente deve
essere vuota, pronta ad accogliere ciò che viene dall’esterno, piuttosto che
formarsi un’idea di come agire sull’esterno. All’idea di vuoto si collega
l’idea di silenzio, contrapposta all’idea di suono, prodotto della volontà. La
constatazione dell’inerme pochezza dell’individuo non è però accolta con
tragica consapevolezza, come avviene nel nichilismo, ben noto alle filosofie
occidentali, ma con un senso di allegra liberazione, per non dire di
spensieratezza. Se tutto è frutto del caso, perché non affidare al caso anche
la composizione musicale, lasciando che il lancio delle monetine dell’oracolo
cinese I-Ching determini ogni aspetto della partitura? Così inizia a fare
John Cage, con Music of Changes del 1951. Nel
contempo Cage propone una radicale rivalutazione del silenzio. In 4’33’’ (per
qualunque strumento o qualunque combinazione di strumenti), del 1952, la
partitura coincide di fatto col titolo, che delimita il periodo di tempo in cui
l’esecutore (o gli esecutori) non devono fare e tantomeno suonare assolutamente
nulla ("do nothing" è l’indicazione).
In quanto alla diffusione del
buddhismo in Europa (quarto spostamento
ad est…) possiamo distinguere una prima fase caratterizzata dall’interesse,
puramente teorico, per il buddhismo da parte di filosofi: un grandissimo
contributo è stato dato da Arthur Schopenhauer, che è stato definito “il
precursore del buddhismo in Occidente”. Non sempre, peraltro, le idee di questi
filosofi sul buddhismo sono precise. Una fase successiva del buddhismo europeo,
con la nascita di vere e proprie comunità, comincia dopo la Prima guerra
mondiale. In Germania le comunità rivali del giurista Georg Grimm (1868-1945) e
del medico Paul Dahlke (1865-1928), in Inghilterra la “Loggia buddhista” creata
da Christmas Humphreys (1901-1983) originariamente nell’ambito della Società
Teosofica, in Francia gli “Amici del Buddhismo” fondati a Parigi da Grace
Constant Lounsbery (1876-1964) raccolgono diverse centinaia di persone.
Cominciano a essere conosciute
forme di buddhismo giapponese della tradizione di Nichiren e di quella
esoterica shingon, e tibetano delle diverse scuole vajrayana. L’invasione
cinese del Tibet, nel 1950, e la repressione del tentativo di rivolta del 1959,
portano a una fuga verso l’Occidente di numerosi maestri, e fanno del XIV Dalai
Lama una figura di grande notorietà
internazionale.
Si può parlare così di
un’esplosione di interesse per lo zen negli anni 1960 e 1970 (anche negli
ambienti della controcultura hippie), seguito dal grande successo del
buddhismo tibetano a partire dagli anni 1980. Questo successo passa anche per
la letteratura e il cinema, dal Siddhartha (1922) di Hermann Hesse
(1877-1962) a film come Piccolo Buddha, Sette anni in Tibet e Kundun. Questi spunti letterari e cinematografici - insieme con
la notorietà del XIV Dalai Lama - hanno sicuramente favorito anche la
diffusione del buddhismo in Italia, dove maestri buddhisti orientali sono
arrivati più tardi rispetto alla Gran Bretagna o alla Francia, sia per la
virtuale assenza di immigrazione, sia per la mancanza di legami coloniali con
Paesi a maggioranza buddhista.
L'Occidente è ormai
caratterizzato da una presenza importante del buddhismo, che secondo stime
aggiornate al 2012 totalizza 473.818.000 fedeli nel mondo. Gli occidentali
convertiti (o figli di convertiti) sono oltre tre milioni, cui si devono però
sommare oltre quattro milioni di buddhisti “etnici” di origine prevalentemente
giapponese, cinese, coreana, indocinese e singalese. In Europa i buddisti
sarebbero 1,5 milioni, di cui 600.000 in Francia (400.000 rifugiati dal sudest
asiatico: Vietnam, Laos e Cambogia, 50.000 di origine cinese, 150.000 francesi.
La presenza buddhista in Italia comincia a farsi notare
negli anni 1960, con la fondazione a Firenze dell'Associazione Buddhista
Italiana e con la pubblicazione dal 1967 della rivista Buddhismo Scientifico.
Negli anni 1970 e 1980 questa presenza cresce, sia con l'influsso di maestri di
scuola vajrayana profughi dal Tibet, sia con la diffusione dello zen, che si
affianca alla già esistente presenza theravada. Per vie autonome, arrivano in
Italia anche gruppi di tradizione Nichiren. Nel 1981 Vincenzo Piga (1921-1998)
fonda la rivista Paramita. Quaderni di Buddhismo per la pratica e per il
dialogo, che continuerà la sua esistenza fino alla morte del fondatore. In Italia esistono almeno 60
centri buddisti, in gran parte nelle regioni settentrionali. Tutte le grandi
scuole tradizionali sono presenti: in particolare quella Theravada (Sri Lanka e
Sudest asiatico), quella Zen (Giappone) e quella tibetana. Di questi centri, 28
fanno capo all'Unione Buddista Italiana, nata nel 1985, che è stata
riconosciuta dallo Stato come "ente morale avente fini di culto", e
che attende di poter firmare un'Intesa vera e propria. L'UBI non è interessata
a un insegnamento del Buddismo nella scuola statale, ma chiede di partecipare
alla ripartizione dell'8 per mille del gettito Irpef.
In tutto i buddisti italiani
sono circa 60.000 (di cui 44.000 cinesi e cingalesi immigrati e rifugiati;
16.000 di varie nazionalità, inclusa quella italiana); la presenza femminile,
di ceto medio-alto, con interessi nei campi dell'ecologia e della non-violenza,
è preponderante: 70%. I monaci buddisti sono una decina di stranieri e una
quarantina di italiani, prevalentemente seguaci della tradizione Zen. I
monasteri sono tre. Escludendo qualsiasi intento di proselitismo, i buddisti
italiani si dedicano prevalentemente al volontariato, ad attività socialmente
utili, al dialogo interreligioso e interculturale. Le riviste più importanti
sono: Paramita, Siddhi, Sati, Zen, Merigar, che tirano nel complesso più di 7.000
copie.